Riccardo Bravi
A proposito di “In guerra con me stesso”

Tracce di Derrida

La casa editrice Medusa ripropone due rare interviste di Jacques Derrida. Nella sua ultima concessa in vita, in particolare, il filosofo tratta la necessità di rieducarsi alla vita (dopo la caduta del Muro di Berlino)

Jacques Derrida è stato uno dei pensatori più prolifici della seconda metà del Novecento. Chiunque si imbatta (o si è imbattuto) nel suo pensiero noterebbe di certo una continuità della sua scrittura, volta a lasciare “tracce” e a decostruire schemi preesistenti. Impegnato sin dagli anni ’60 nei diritti civili e nelle questioni terzomondiste, Derrida sarà un personaggio eccentrico alquanto schivo nelle apparizioni pubbliche. Delle poche interviste rilasciate in più di cinquant’anni di attività intellettuale e di impegno militante, la piccola casa editrice Medusa ha recentemente scelto di pubblicarne due, utili nel comprendere alcuni punti considerati da sempre “oscuri” di questo originale autore. (Autori vari, In guerra con me stesso. Due conversazioni con Jacques Derrida, Milano, Edizioni Medusa, 2018).

Nella prima, “Non c’è il narcisismo”, vengono svelati alcuni nodi cruciali del pensiero della decostruzione nel suo allontanamento dalla tradizione metafisica occidentale: prendono parte alla disamina la questione della “vigilanza”, le origini ebraico-sefardite sulle quali poco è stato dibattuto, l’eredità filosofica greco-tedesca e la memoria. La conversazione termina con l’interesse per l’architettura come messa a punto del processo decostruzionista anche allo spazio urbano e ai suoi valori culturali e simbolici.

“In guerra con me stesso” è l’ultima intervista rilasciata in vita da Derrida al quotidiano francese Le Monde nel 2004. Come in Spettri di Marx, la realtà spettrale degli anni ’80 sarà un’immagine chiave utilizzata dal filosofo in riferimento alla condizione stessa della filosofia e al pensiero cosiddetto hanté: Derrida si volge in questo periodo alla giustizia sociale a venire e ai cambiamenti nell’ordine mondiale dopo il crollo dei regimi comunisti. Da qui si inserisce una riflessione sull’“educare” alla vita, o meglio alla sopravvivenza (überleben) che trova il suo apice nel lasciare tracce. È il compito dato alla bella lingua francese, l’unica lingua che il pensatore franco-algerino sostiene di aver mai posseduto (Il monolinguismo dell’Altro): “Lasciare tracce nella storia della lingua francese, ecco ciò che m’interessa. Vivo di questa passione, se non per la Francia, per lo meno per qualcosa che la lingua francese ha incorporato dopo secoli. Suppongo che se amo questa lingua come amo la mia vita, e qualche volta di più di quanto non l’ami di questo o quel francese d’origine, è che l’amo come uno straniero che è stato accolto e che si è appropriato di questa lingua come la sola possibile per lui. Passione e rilancio” (p. 77).

Ed è proprio su centinaia di testimonianze in lingua francese che Jacques Derrida lascerà la sua impronta prima di morire, morte della quale fu sempre tuttavia spaventato seppur conoscendo l’ingiunzione filosofica fondamentale per la quale filosofare è imparare a vivere. E dunque imparare a morire.

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