Leopoldo Carlesimo
L'ultima parte di "Pat e il pirata"

La fine di Malcolm

«Pat, lo sai che vuol dire andarsene adesso, senza completare la missione? Non è solo interrompere la raccolta dei dati, rallentare tutto il progetto… Vuol anche dire che scappiamo, abbandoniamo il campo»

Riassunto delle puntate precedenti: in Papua Nuova Guinea la scoperta di grandi giacimenti di gas e la costruzione di un grande impianto LNG in cui la Exxon ha investito miliardi di dollari, stanno rapidamente trasformando l’economia dell’Isola. Le oppotunità di un rapido arricchimento attraggono compagnie d’affari internazionali e dozzine di avventurieri. Uno di loro, Malcom Kelly, per conto di una Compagnia italiana cerca di organizzare la costruzione di una grande diga nel cuore della jungla, lungo il fiume Purari, nella selvaggia regione di Mount Hagen. Incontra la resistenza della popolazione indigena e di un suo carismatico capotribù, Iroka. Per superarla cerca l’aiuto di un vecchio colono irlandese, Patrick O’Connell, uomo ricco e potente in Papua Nuova Guinea, dove possiede aziende e terreni, e un resort-bordello, l’hotel Grand Papua, che è uno dei luoghi d’incontro più animati dell’Isola. Inizialmente, con l’aiuto di Pat, Malcom riesce ad aprire un canale di dialogo con Iroka. Sembra possibile trovare un accordo coi nativi e gli studi per la costruzione dell’opera muovono i primi passi. Ma, forse per l’eccessiva irruenza di Malcom, a poco a poco questo embrione d’accordo si deteriora, scivola nella rivalità personale tra Malcom e Iroka…

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La seconda missione si svolge una settimana dopo. A conclusione dello scontro nel resort, Malcom ha strappato a Iroka un provvisorio, limitato assenso. E nei giorni che seguono lui e Francis si dedicano a organizzare il nuovo intervento a Purari.

È solo un’altra di quelle missioni tecniche preliminari che aprono la strada a un progetto. Ma il dispiegamento di uomini e mezzi è molto più massiccio della prima volta. Due elicotteri di Pat fanno la spola con la base di Goroka, dov’è stato allestito un centro logistico e operativo che comincia ad essere appena un po’ strutturato: dispositivi informatici, telecomunicazioni, ingegneri che raccolgono, elaborano e catalogano i dati raccolti sul posto. Un camion assicura il collegamento via terra per i rifornimenti pesanti: macchinari, attrezzature, carburante. Almeno una ventina di tecnici partecipano alla missione. Il campo avanzato è fissato sul sito diga, grossomodo nella stessa posizione, sull’ansa del fiume. È ancora fatto di tende, ma stavolta più grandi e più numerose; ed è ben illuminato, la notte, un gruppo elettrogeno di medie dimensioni assicura tutta l’energia elettrica che serve.

Che impressione avranno prodotto sulle comunità indigene dell’alta valle del Purari queste prove d’invasione? Quale reazione avranno destato? Villaggi minuscoli, tutti più o meno simili a quello che abbiamo descritto, dispersi nella jungla, in valli impervie e isolate, quasi del tutto prive di comunicazioni con l’esterno. Hanno visto elicotteri sorvolare a ripetizione le loro capanne, atterrare e ridecollare da un punto preciso lungo il corso del fiume. Un’ansa maestosa, un luogo notevole dei dintorni, che per loro avrà certamente un nome. Con ogni probabilità, avrà anche di più. Nelle loro credenze vi saranno forse degli spiriti che lo abitano, in molti casi tra le popolazioni indigene e le forme più impressionanti che la natura assume nel territorio limitrofo si stabilisce questo tipo di legame, che passa attraverso il mistero, il sacro.

Il fiume Purari. L’ansa del fiume. Chi di loro s’è avvicinato, nascosto nella macchia, ha visto uomini sbarcare da quei velivoli, estrarne oggetti di difficile identificazione, costruire in pochissimo tempo un villaggio di una strana specie. Un villaggio violentemente illuminato, la notte, una falla di luce nel buio primordiale della jungla. Ha osservato a distanza, protetto dalla folta vegetazione, lo svolgimento di attività poco comprensibili, ma in cui si colgono ripetitività rituali. Calzano cashi, indossano tute fosforescenti, vagano lungo il fiume, tra faglie e frane, armati di strani strumenti. Viene avvistato e poi seguito un camion che, lungo l’unica dissestata pista che raggiunge la grande ansa del fiume, porta e riporta oggetti, e ogni giorno percorre e ripercorre lo stesso tragitto. A cosa preludono questi rituali, cosa leggere in tutto ciò?

Il camion rifornisce quotidianamente la base di carburante, materiali pesanti, ricambi. Ha portato a Purari due sonde leggere di perforazione, per il prelievo di carote di roccia in profondità, e riporta ogni giorno da Purari a Goroka, col viaggio di ritorno, cassette piene di campioni di roccia, terra e acqua, che vengono catalogati e poi inviati in laboratorio per le analisi. Geologia, topografia, idrologia. Le tre gambe su cui si regge lo studio di una diga.

Per la topografia hanno portato un drone, che esegue i rilievi lungo le pareti scoscese e inaccessibili della valle. In tutta l’area interessata dal progetto, miliardi di punti sparati col laser restituiscono un modello dettagliato e preciso della morfologia del territorio. L’idrologia è la parte più complessa. Non esistono registrazioni storiche delle portate del fiume, la base statistica sulla quale ipotizzare l’andamento delle portate e prevedere le piene è poverissima. Bisogna affidarsi a registrazioni indirette. Pluviometria – rilevazioni scarse e assai poco estese nel tempo – e mappe satellitari che consentono di determinare il bacino del fiume in quel punto. Sull’area di territorio così individuata, partendo dall’intensità delle piogge e da uno schema fisico che bilancia scorrimento superficiale, evaporazione, infiltrazione e scorrimento profondo, viene sviluppato un modello di calcolo, approssimativamente fissati dei tempi di corrivazione, simulate le portate del fiume e le sue piene.

Schemi e rappresentazioni impenetrabili, per i selvatici abitanti del Purari. Quasi altrettanto quanto lo sono gli spiriti che abitano l’ansa del fiume per i tecnici della Compagnia. Il modello delle piene del fiume, o della pioggia, per i nativi di Purari sono gli spiriti che popolano la foresta. Per il momento, queste due rappresentazioni umane della natura si ignorano. Ma sono entrate in contatto, sono costrette a coesistere nello stesso luogo.

Tra due gruppi di uomini che hanno modelli così diversi del mondo – e nello specifico, del posto in cui entrambi si trovano e a cui sono, per ragioni distinte, tanto fortemente interessati – non s’instaura per il momento alcun contatto.

Al personale tecnico che partecipa alla missione, la popolazione locale non interessa. Sono troppo indaffarati con gli scopi della missione, hanno le loro attività da svolgere, programmi da rispettare, dati da raccogliere. Oltre al personale tecnico specializzato, fanno parte della missione una trentina di operai e dieci militari armati, a garantire la sicurezza.

Che, stavolta, non sembra costituire un problema. La missione si svolge in apparenza senza tensioni.

Solo in superficie, però. Si percepisce nei dintorni del campo, dietro l’ansa del fiume, una presenza costante, diffusa, di popolazione locale. È un presidio nascosto, quasi invisibile. Sorvegliano a distanza l’opera dei forestieri, controllano le loro mosse, ma non intervengono. Neanche si mostrano.

Questo lascia presupporre un’organizzazione. Primitiva, ma in qualche modo militarmente strutturata, e dunque minacciosa. Sarebbe normale che la popolazione dei villaggi attorno al campo fosse attratta dalla presenza degli stranieri, incuriosita, cercasse un contatto; magari per chiedere qualcosa, del cibo, del carburante, del lavoro. In Africa avverrebbe così.

Il fatto che non si mostrino, che vigilino a distanza, nascosti nella macchia, oltre che timidezza e chiusura, lascia intuire un’ostilità di fondo; e anche un disagio e forse un disegno, in reazione a quel disagio. La missione non opera in territorio amico. È stata stipulata una tregua, ma le due entità senza le quali il progetto non può esistere – la comunità locale e quella straniera – ancora non collaborano, non interagiscono neppure.

* * *

La sua proposta, Malcom la mette sul tavolo nel successivo incontro con Iroka, al Grand Papua, un paio di settimane dopo lo scontro del resort, quando la missione a Purari è in corso da diversi giorni, anzi è ormai prossima alla sua conclusione. Malcom ha chiesto l’aiuto di Pat per mediare.

Deve aver esitato, prima di farlo. Questa almeno è l’impressione che, a posteriori, ne ha tratto Pat. Le divergenze che avevano sulla conduzione dell’affaire Purari, e forse anche una sotterranea rivalità personale, fanno ritenere a Pat che Malcom avrebbe preferito non chiedergli nessun aiuto.

“Credo,” dice Pat, “che Malcom desiderasse incontrare Iroka da solo. E in fondo, ripensandoci, sarebbe forse stato meglio. Certe discussioni si fanno meglio a due. A un certo punto di una trattativa, certe discussioni non possono farsi che a due.”

Ma qualcosa invece lo convinse a chiedere a Pat di essere della partita. Certo, c’erano valide ragioni per questo. Purari era il loro affare, erano soci. E poi Pat ha già svolto questo ruolo di mediazione, è la persona giusta per trattare coi nativi. È del tutto logico che Malcom chieda a Pat di dargli una mano, e che scelga il Grand Papua come terreno d’incontro.

“Tutte buone ragioni,” dice Pat. “Ma sono convinto che non me lo avrebbe chiesto, se non vi fosse stato costretto.”

“E, ripensandoci,” prosegue Pat, “nessuno di questi motivi, tutti perfettamente logici, avrebbe potuto costringere Malcom ha chiedermi aiuto. No, c’era dell’altro. Qualcosa di meno razionale, più oscuro. Io credo che Malcom sia venuto da me perché era spaventato. Dopo l’incontro del resort, non se la sentiva di affrontare di nuovo Iroka. Aveva già paura di lui.”

La paura, per uno come Malcom, è un sentimento difficile da governare. Uno così fa fatica ad ammetterla. Quel tipo di paura, almeno. Perché quella di Malcom non è una paura fisica. Non è il naturale timore della forza bruta di Iroka. Questo sarebbe più facile da accettare, sarebbe come aver paura di un leone, o di un gorilla.

No, quello che Malcom non può accettare è che prova un’altra forma di soggezione verso Iroka. Lo teme in una forma più profonda: percepisce un senso d’inferiorità. E uno come Malcom non può percepire un senso d’inferiorità nei confronti di quel selvaggio.

“Questo, oscuramente, Malcom temeva. Beh, se solo avesse dato un po’ più retta a quell’intuizione, probabilmente sarebbe ancora vivo… Ma era un testone, ed ecco qua…”

La missione a Purari si è svolta finora senza intoppi. La pressione della popolazione locale è un po’ cresciuta, negli ultimi giorni. Si sentono dietro il fogliame, s’intravedono sempre più numerosi attorno al campo; ma non vi sono mai stati incidenti, neanche contatti ravvicinati, e manca talmente poco perché la missione si concluda…

Iroka si presenta al Grand Papua dopo cena. Si materializza quasi nel buio, né Pat né Malcom lo vedono arrivare. È già tardi, l’happy hour del resort se n’è andata da un pezzo, il locale è ormai quasi deserto. Pat e Malcom hanno cenato, lo aspettano a un tavolo appartato lontano dal bancone. Hanno lasciato libera una sedia a capotavola, loro due siedono uno da un lato uno dall’altro, Pat ha fatto portare un secchiello di ghiaccio e una bottiglia di Cloudy Bay.

Iroka si siede. Pensava di trovare Malcom da solo, è evidente dagli sguardi che lancia a Pat. Probabilmente s’aspetta di vederlo alzarsi e andarsene. Ma non succede, e allora a Iroka non importa, tira dritto, per lui possono essere uno, due o dieci, fa lo stesso, stavolta vuole andare al sodo e ci arriva senza esitare.

Ma è Pat a governare la discussione e la sua presenza altera un po’ le cose. La personalità di Patrick O’Connell, la sua fama in PNG, il suo tatto nel trattare coi nativi hanno il loro peso. Col suo modo di fare paziente ma fermo, fintamente saggio, che dissemina inciampi sul percorso dell’avversario senza mai affrontarlo direttamente, sembra capace di imbrigliare Iroka, di contenerlo.

E questa potrebbe non essere una fortuna. Può essere d’aiuto o d’intralcio, chissà. Moderare certe discussioni, o certe fasi conclusive della discussione, può essere peggio, se moderarle significa impedir loro di arrivare, in un modo o nell’altro, a uno scioglimento.

Tuttavia parlano abbastanza francamente, e anche se gli argomenti di cui Malcom dispone sono insufficienti, la presenza di Pat impedisce a Iroka di attaccare sul piano fisico, di prendere il sopravvento. I toni sono smorzati, vellutati, ben diversi dalla discussione del resort, Malcom sarebbe stato molto più maldestro. Iroka saliva abbondantemente, però, le sue ghiandole sono in ebollizione, ha la bava alla bocca. Ma non arriva mai al punto di avvicinare il volto dei suoi interlocutori, non trova spazi per sfogare la sua rabbia. Non con Pat. È indotto a recedere, invece. Subisce qualche colpo. Combatte in campo sfavorevole. Deve apprendere molto velocemente, per difendersi, le stesse arti di dissimulazione che si vede rappresentate davanti. È intelligente, impara in fretta. Invece di reagire d’impeto, si chiude e finge. Mente come i bianchi, gioca la loro stessa partita. Pur senza riuscire a contenere una copiosa, stavolta inutile, salivazione.

La discussione non dura a lungo. Iroka non accetta la proposta di Malcom, Malcom non è in grado di metterne sul tavolo una migliore. Le arti di Pat impediscono al diverbio di esplodere, ma non possono fare molto di più. Senza che l’incontro abbia prodotto alcuna conclusione, Iroka si alza e se ne va.

Restano Malcom e Pat, seduti al tavolo, davanti a una mezza bottiglia di Cloudy Bay non consumata, i bicchieri ancora pieni. E ciascuno una sua visione di quel che è appena accaduto.

Passa parecchio tempo in silenzio.

Poi Pat dice: “Quando termina la missione?”

“Tra un paio di giorni,” grugnisce Malcom. “Abbiamo quasi finito.”

Lunga pausa. Le ombre che calano sul Grand Papua, la sera, rendono questo luogo sinistro. Un angolo di jungla semi-umanizzato, reso spazio sociale di frontiera, cerniera tra due mondi. Due comunità e due nature. I bungalow sepolti nella macchia paiono sagome spettrali, deserte, nell’illuminazione troppo scarsa, densa di ombre, del resort, circondato dal buio della foresta tutt’attorno. Un luogo minaccioso. Congiunge i pericoli selvatici della jungla a quelli dei conflitti tra uomini. Piante stormiscono ai margini delle tenebre, alla brezza che s’è appena alzata. Finché Pat rompe il silenzio, quasi a conclusione di un silenzioso ragionamento.

“Beh, è finita ora,” dice. “Domattina da’ ordine ai tuoi, raccogliete tutta la vostra roba. Falli tornare indietro.”

“Stai scherzando.”

“Guardami. Ti pare che scherzo?”

Malcom ormai conosce quel tono definitivo di Pat. Cerca di prendere un po’ di tempo.

“Pat, lo sai che vuol dire andarsene adesso, senza completare la missione? Non è solo interrompere la raccolta dei dati, rallentare tutto il progetto… Vuol anche dire che scappiamo, abbandoniamo il campo. Per chissà quanto tempo non ci torneremo più.”

“Hai visto l’espressione di Iroka quando se n’è andato?” Ribatte Pat. “La missione è finita. I miei elicotteri non porteranno più nessuno a Purari. Né rifornimenti, né viveri, né altro. Faranno solo viaggi d’andata, vuoti. Vanno a riprendere gli uomini che hai laggiù. Il più presto possibile. Evacuiamo.”

“Non puoi farmi questo, Pat,” dice Malcom.

È l’unica cosa da fare. Il rischio è troppo grande.”

“Senti, mancano solo un paio di giorni… Abbiamo quasi finito. Staremo attenti. Completiamo tutto per bene, raccogliamo con ordine la nostra roba e alla fine della settimana ce ne andiamo… E poi chiameremo di nuovo Iroka, ci parleremo, troveremo un accordo.”

“No. Non ve ne darà il tempo. Anche Iroka sa che la missione è quasi finita. Se vuol fare qualcosa, lo farà prima. Non ci arrivate al fine settimana, dovete andarvene subito.”

Così, il litigio che non scoppia con Iroka, esplode invece tra Malcom e Pat. Volano parole grosse. E Pat toglie a Malcom l’appoggio dei suoi elicotteri. Malcom urla, sbraita. Pat invece è freddo e irremovibile:

“Non avrai più un volo, Malcom. Questo è tutto.”

* * *

Le maschere e le danze guerriere delle tribù Kuru, esibite al festival culturale di Goroka, sono il residuo di una fase superata. Avanzi. Guasti, per giunta, che vengono serviti una volta l’anno, di regola a settembre, a un certo numero di strani viaggiatori. Rituali che riesumano corpi di defunti e li danno in pasto a festanti, inconsapevoli necrofili.

Allora, ecco il rituale. I corpi tinti di colori vivi – giallo, rosso, bianco – con estratti minerali o vegetali, sommariamente coperti d’indumenti composti di foglie e di piume, e decorati con conchiglie e denti di animali, fanno parte dell’apparato scenico, banalizzato e reso innocuo dalla diffusione delle immagini, riprodotte ormai anche sul web. Tutto talmente carico e marcato, conforme a uno stereotipo kitsch, che potrebbe essere riprodotto tal quale – e forse prima o poi lo sarà – su qualche set alberghiero di Las Vegas, Macao o Dubai.

Nessuno si sente più minacciato da queste figurazioni, rese inoffensive dall’uso commerciale. Danze bellicose al ritmo di primitivi strumenti a percussione, agitazione più o meno coreografica di armi bianche: lance, machete, pugnali. Molti elementi decorativi tratti da corpi d’esseri viventi: conchiglie, teschi animali, ossa, corna, piume.

Manca qualcosa, però. Sono state prudentemente espunte, censurate, alcune componenti decorative un po’ troppo forti, che sarebbero forse riuscite indigeste a questo pubblico.

Non sono perciò mostrati reperti della tradizione di mummificazione e riduzione dei crani umani, che i cacciatori di teste dell’isola fino a non molto tempo fa praticavano per trarne oggetti d’uso decorativo, di pregio e valore simbolico ben maggiori rispetto agli altri ornamenti. Né vi sono riferimenti a una tradizione correlata, ed anche abbastanza nota: si dice che alcune tribù isolate nella jungla della Papua Nuova Guinea, nell’area di Mount Hagen, pratichino ancora l’antropofagia.

Gli ultimi cannibali, se esistono davvero, pare possano mangiare carne umana in varie circostanze, e per diverse ragioni.

Vi sono motivazioni più o meno magiche, o di superstizione, o di paura, per cui ad esempio un membro del gruppo oppure uno straniero è considerato impuro, o maledetto, o posseduto da qualche spirito, o portatore di calamità; ed è per proteggersi dal suo influsso nefasto che la comunità lo uccide e, in obbedienza a qualche rituale, ne mangia parti.

Vi sono poi motivazioni più strutturate in pratiche di culto. Riti il cui scopo è prevenire una minaccia reale o percepita, o che fanno parte di qualche cerimoniale propiziatorio. In questi casi il sacrificio umano e il suo sviluppo antropofagico ha lo scopo di favorire l’evoluzione di qualcosa – un evento naturale, un’impresa rischiosa, un raccolto, una malattia – scongiurandone l’esito infausto.

Questi sono tipi di antropofagia rituale, più o meno religiosa o magica. Vi sono poi atti di cannibalismo guerriero, compiuti a conclusione di una guerra, o di uno scontro tribale, o semplicemente di un combattimento tra bande, o anche per odio singolo o rivalità individuale, per cui si mangia il nemico sconfitto.

È invece rarissimo il cannibalismo dettato da fame, quello per cui un membro della comunità – o un estraneo – vivo o già morto, è individuato come possibile fonte di cibo per assicurare la sopravvivenza degli altri. Quel tipo di cannibalismo che, per esempio, è stato praticato in alcuni casi noti di naufragi, tra i superstiti delle scialuppe, o in occasione di disastri aerei in luoghi remoti, come accadde nel 1972 tra i passeggeri del Fokker F27 precipitato sulle Ande.

In ciascuna di queste declinazioni, vi sono scelte che il cannibale deve compiere. Una riguarda le parti del corpo da mangiare. Si dice che per gli ultimi antropofagi della PNG la preferenza cada sul cervello. E siccome in molti casi il rituale cannibale si coniuga con le pratiche di mummificazione dei cacciatori di teste, occorre che il cervello sia estratto senza danneggiare il cranio.

Esso viene quindi scoperchiato, segando la calotta, ne viene estratto e consumato il contenuto, mentre il resto viene riunito, ridotto di dimensioni – imbalsamato o mummificato – e conservato come trofeo o come elemento decorativo di cinture, monili e festoni che adornano le capanne.

* * *

Una cosa che Malcom ha nascosto a Pat, è il suo rapporto abbastanza stretto col governatore di Kundiawa.

Il governatore di Kundiawa è un ometto, basso, sgraziato, con una gran testa pencolante su un corpo minuto, folti capelli crespi portati troppo lunghi, incolti e già in buona parte grigi, lunghe braccia, grandi mani, piedi larghi e deformi. Malcom lo vede diverse volte, prima e dopo l’incontro con Iroka al Grand Papua e prima del suo ultimo viaggio a Purari, nel giorno conclusivo della missione.

A volte gli incontri avvengono nel palazzo del governatorato di Kundiawa, capoluogo della Simbu Province, una catapecchia disordinata e sporca dove bivaccano come impiegati dell’amministrazione diversi familiari e amici del governatore. Vi ronzano insetti, vi si accumula sporcizia, si levano qua e là zaffate di maleodore, i cessi sono tutti intasati, elettricità e acqua corrente funzionano raramente. A parte questo, non vi si svolge alcuna attività.

Purari ricade nella sua provincia, il governatore dovrebbe essere la persona istituzionalmente più indicata per censire i landowners, stabilire la liaison con loro, organizzarli, individuare dei rappresentati che possano fare da leader o da portavoce. Costituire insomma quell’interlocutore di cui il progetto ha bisogno, formare il primo embrione di una società indigena che partecipi alla realizzazione dell’opera.

Questo Malcom chiede all’ometto. Ripetutamente. In numerosi incontri. Senza però mai parlarne con Pat, tenendoglielo nascosto. Tutto questo, Pat verrà a saperlo solo dopo. E lo confermerà nell’idea che in fondo Malcom se la sia cercata. E che la sua intelligenza fosse, alla fin fine, limitata. Come fare a non capire subito, a primo sguardo, che da quell’uomo non c’è da attendersi nulla di buono? Che lo porterà a sbattere, di sicuro?

Il governatore gli promette ogni sorta di azioni verso i landowners, sostiene di conoscerli uno per uno, di avere autorità sui villaggi, di poterli organizzare facilmente e giura di poter far fare alle tribù tutto quello che Malcom desidera. Naturalmente, ha delle richieste. Inizialmente delle richieste iperboliche; ma che, affrontato a muso duro – e questo Malcom sa farlo bene – rapidamente si riducono a un’inezia, poco più di qualche spicciolo, un compenso all’altezza dell’uomo.

* * *

È l’ultimo giorno di missione a Purari. Malcom avrebbe dovuto raggiungere i suoi con un volo di Pat, per chiudere sul campo la missione, trarre le conclusioni assieme al team, fare un bilancio. Ma il litigio con Pat, il suo rifiuto di concedere gli elicotteri, lo hanno messo in difficoltà.

Però Malcom non è tipo che si tira indietro davanti alle difficoltà. Il giorno dopo, a insaputa di Pat, si sobbarca tutto l’estenuante viaggio via terra fino a Purari con l’ultimo camion di rifornimenti che, passando per Kundiawa, raggiunge il campo base. Dorme in una tenda, all’alba è già sul posto, pronto a condividere coi suoi le conclusioni del lavoro svolto.

Ha un primo incontro a tu per tu con Francis, di buon mattino, nella tenda più ampia, in cui hanno allestito una specie di sala da campo. Stendono sul tavolo disegni, programmi, ci vuole un po’ più di un’ora per riassumere gli sviluppi, avere un quadro di sintesi, farsi un’idea generale.

Gli elicotteri di Pat atterrano alle dieci del mattino. Vuoti, come promesso. Inviati solo per riportare indietro gli uomini. I piloti insistono per ripartire subito, secondo le istruzioni ricevute. Ma Malcom li trattiene, rinvia il decollo. Vuole tenere le riunioni coi suoi, prima, come previsto.

Vede separatamente i diversi gruppi di lavoro: topografi, geologi, idrologi. Entrano nei dettagli, esaminano il lavoro svolto, le informazioni raccolte, i nodi ancora da sciogliere. Riunioni che prendono il resto della mattinata. Poi c’è il pranzo comune, con tutta la squadra, nella tenda che fa da mensa.

È già pomeriggio inoltrato quando si tiene la riunione conclusiva, tutti insieme, il team al completo radunato sotto la tenda più grande, disegni e computer portatili sparsi sul tavolo, grafici, tabelle, piani d’indagini successive.

Finisce grossomodo come previsto, verso le cinque. Manca una mezz’ora, poi Malcom e tutto lo staff tecnico saliranno sugli elicotteri e prima che faccia buio faranno rotta su Goroka. Gli operai e i militari invece dormiranno lì, la mattina dopo smantelleranno il campo, raccoglieranno la loro roba, caricheranno le attrezzature sui camion che è previsto arrivino in mattinata, e se ne andranno anche loro.

È allora, poco dopo le cinque, che si perdono le tracce di Malcom.

* * *

Sei mesi dopo, il 4 dicembre, il cantiere della diga di Purari festeggia la sua prima Santa Barbara. Lo fa al Grand Papua.

Nel giorno della santa – protettrice dei minatori e, per estensione, dei cantieri – una dozzina di tecnici della Compagnia (sei italiani, un portoghese, due sud americani, due marocchini, un nigeriano) normalmente di stanza a Purari, si recano a Goroka, a far baldoria nel resort di Pat. Assieme a loro, una trentina di operai aborigeni, i primi assunti del cantiere.

La tradizione tutta italiana che impone di sparare qualche salva in onore della santa quando cade il suo giorno, viene grossomodo rispettata, anche se un po’ traslata nello spazio, lontano dalla diga. Dentro il resort. Nel bel mezzo della festa Duratti, un minatore friulano di sopra Codroipo, fa brillare un paio di detonatori che s’è portato dietro nelle tasche dei calzonacci stazzonati, seminando il panico tra gli avventori.

Sicché poi Pat si trova a dover dare spiegazioni a due agenti di polizia, accorsi allarmati dai botti. “Non è niente,” fa Pat. “Questi italiani. Loro e le loro feste cattoliche. Persino più esuberanti di noi irlandesi.” Gli agenti di polizia non capiscono, ma si fidano. La parola di Pat basta a rassicurarli. Se ne vanno. La festa continua.

Ed è – per quanto stramba, allestita in un luogo così improprio e remoto – una classica festa da cantiere italiano: c’è la lunga tavolata, composta mettendo insieme tutti i tavoli del Grand Papua (e lasciando in piedi gli altri avventori, che devono accontentarsi di consumare al banco le loro birre) ci sono le ragazze del Grand Papua, schierate e tirate a lucido, trucco pesante, tacchi alti, i vestiti più eleganti che son riuscite a trovare, sedute in mezzo gli uomini della Compagnia, a tenerli allegri; ci sono bottiglie di vino, bianco e rosso, che passano di mano in mano, vino non italiano, certo, ma buon vino australiano o neozelandese; e c’è da mangiare in abbondanza, manca forse un piatto di pasta, ma ci sono vassoiate di carni e pesce e crostacei di tutti i tipi.

E alla fine, come in tutte le Sante Barbare di cantiere, dopo l’abbuffata e le bevute la maggior parte degli uomini è sbronza, e raccoglie quel che resta delle bottiglie sparse in giro, e si ritira nel suo bungalow con la ragazza che s’è scelto o s’è ritrovato attaccata addosso; e il festino si spegne e cala quell’atmosfera un po’ triste, da fine baldoria, quando davanti ai resti della banchetto si percepisce un senso di vuoto, che s’insinua tra stoviglie in disordine, avanzi di cibo, boccali ancora mezzo pieni, bottiglie rovesciate, qualche testa riversa sul piano del tavolo. Allora si sente, lontana, la voce di Pat.

“In fondo,” dice, “tutto questo lo dobbiamo a lui. Si può quasi dire che si sia immolato per la causa. Alla fin fine, ha fatto un’uscita da eroe. Non glielo riconoscerà nessuno, ma è proprio quel che gli è capitato. A un uomo dappoco come lui. Chi l’avrebbe detto.”

Parla di Malcom.

Sono rimasti in quattro, Pat, che s’è unito alla festa degli Italiani, Buzzon, Dal Molin e Fernando, con le loro tre ragazze. Nessun altro. Il Grand Papua è deserto, un po’ perché è molto tardi, un po’ perché tutti gli estranei sono stati scacciati dalla festa degli Italiani. Pat ha fatto portare del bourbon per l’ultima bicchierata.

“Proprio così,” dice. “Ha salvato la missione e il progetto. Se la diga si fa, se oggi voialtri lavorate a Purari, lo dovete a un pirata da due soldi come lui.”

Buzzon e gli altri due sono bell’e andati, lo guardano pigramente, non seguono il suo ragionamento. Ma a Pat non interessa, continua:

“Se Malcom non si fosse intestardito ad andare a Purari, sono certo che Iroka avrebbe attaccato il campo. È già successo in passato. È accaduto alla Exxon, nei suoi primi tentativi con l’LNG, quando avevano appena cominciato a costruire la loro base. E ancora non avevano compreso come funziona, qui, coi landowners. Gli hanno bruciato il campo e li hanno ributtati in mare. Vi sono stati dei feriti. Il progetto ha subito importanti ritardi.”

“Allora i caporioni della Exxon hanno capito, hanno ricominciato nel modo giusto, sono venuti a patti, e oggi il loro impianto è una realtà.”

“Questo avveniva a Port Moresby, sulla costa, non molti anni fa. A Purari, nell’interno, a poca distanza da Mount Hagen, nel cuore più oscuro della Papua, sarebbe avvenuto di peggio.”

“Credo che, se non si fosse reso conto che Malcom era lì, Iroka avrebbe ordinato ai suoi di attaccare. Prima che quegli intrusi potessero andarsene sani e salvi. Non glielo avrebbe permesso. Probabilmente quando Malcom è arrivato erano già lì, attorno al campo, si preparavano a dare l’assalto. E dato che c’erano militari armati di sorveglianza, vi sarebbero stati dei morti. E questo avrebbe affossato per sempre il progetto.”

“Ma, incredibilmente, quando è arrivato lì coi suoi, un attimo prima di scatenare l’assalto Iroka ha visto Malcom… Se l’è trovato davanti… Chissà cosa avrà pensato, l’avrà creduto pazzo, o un provocatore, un incosciente…”

Buzzon e Moret hanno lo sguardo perso, Fernando pare l’unico ancora in gamba, abbracciato alla sua ragazza, allunga il bicchiere, si fa versare un altro goccio di bourbon.

“O forse “O forse non avrà pensato niente del genere”, prosegue Pat. “Avrà semplicemente cambiato piano, d’istinto, e fatto ciò che fin dall’inizio aveva una gran voglia di fare. Su Malcom. Solo nei suoi confronti. Di un suo nemico personale. Esattamente quello che avrebbero fatto i suoi antenati.”

“Con un dettaglio in più, però. Iroka vede più lungo dei suoi antenati, è già un futuro capo del nuovo corso di questo Paese. S’è reso conto di un risvolto importante: quell’atto atavico, a lui così connaturato, che lui stesso prova tanta voglia di compiere, assume stavolta una valenza nuova. È anche un atto utile. Una logica utilitaria si presta a sostenerlo. Parallela e complementare all’odio verso il nemico. Quell’atto è proprio la cosa giusta da fare, quella economicamente più sensata, la più efficace. Per i suoi interessi e per il progetto.”

“Sono convinto che Iroka non avrà mancato di cogliere questo risvolto. Uno solo, invece di tanti. Ottiene lo stesso scopo, ristabilisce i rapporti di forza sul campo, elimina l’ostacolo ai suoi piani; ma senza compromettere il progetto, con danni collaterali molto minori. Ed è più facile da compiere, comporta meno rischi… E così ha preso Malcom, soltanto lui.”

“E ha avuto ragione: qualcun altro, poco tempo dopo, è tornato a trattare per conto della Compagnia, qualcuno di più ragionevole, meno personalmente coinvolto, meno emozionalmente motivato. E hanno raggiunto un accordo. E il progetto è partito e lo state facendo. E oggi, incidentalmente, la testa di Malcom pende probabilmente da qualche festone di qualche segreta stanza di trofei nel villaggio di Iroka.”

Pat si versa un’ultima dose di bourbon, la bottiglia è quasi alla fine. Dallo sguardo vuoto di Buzzon e Moret, da quello voglioso di Fernando, che si sfrega con la sua selvatica del Kalimantan, capisce che nessuno lo sta più ascoltando. Vuota il bicchiere e conclude, alzandosi:

“Cosa avrà pensato Malcom, invece, nel vedersi a tu per tu con Iroka, nel capire a cosa andava incontro… questo non lo sapremo mai. Mi viene in mente solo una parola, ma preferisco non dirla.”

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4. Fine

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