Alessandra Pratesi
All'Accademia di Santa Cecilia di Roma

Fantasy in musica

L'Auditorium di Roma si colora di tinte fantasy e gothic per l’ultimo concerto della stagione sinfonica: Krzysztof Urbanski dirige “Les cités de Lovecraft” di Connesson e i “Carmina Burana” di Orff

«Pleasure to me is wonder», dichiara H.P. Lovecraft, per il quale motivo di meraviglia e di piacere è l’inesplorato e l’inaspettato, l’immutabile che si cela dietro la superficie della mutevolezza. L’Accademia Nazionale di Santa Cecilia sembra prendere alla lettera l’implicito invito dello scrittore. Per l’ultimo concerto della stagione sinfonica all’Auditorium Parco della Musica di Roma, accosta due composizioni particolarissime, per tecnica di scrittura e scelte strumentali così come per la forza comunicativa di parlare all’immaginario del pubblico. Se con i Carmina Burana di Orff si viaggia nell’idea post romantica di Medioevo, con Les cités de Lovecraft di Connesson si esplorano territori sconosciuti, vagamente familiari ed evocativi ma sostanzialmente nuovi alla maggior parte degli spettatori riuniti nella Sala Santa Cecilia. La bacchetta è di Krzysztof Urbanski (nella foto in alto). Giovanissimo, dal piglio elegante e sicuro, dirige senza partitura, danzando in punta di piedi, con pochi gesti agili e alcune parentesi di distensione lirica.

Apre le danze il «viaggio sinfonico» del francese Guillaume Connesson, Les cités de Lovecraft. La composizione nasce nel 2017 da una commissione dell’Orchestre National de Lyon, organizzata in tre movimenti che equivalgono a tre luoghi fantastici: quelli partoriti dall’immaginazione dello scrittore di fantasy e cosmic horror Howard Phillips Lovecraft. La musica si fa più descrittiva che narrativa, non richiama emozioni ma situazioni. Il pizzicato ricrea l’effetto della goccia che cade insistente in una grotta di stalattiti, mentre l’impiego di un eolifono rende incontrovertibile il richiamo agli elementi naturali e paesaggistici. I glissati e gli acuti del primo movimento condividono una certa familiarità con l’incipit dell’Apprendista stregone di Paul Dukas e con la conclusione del pucciniano intermezzo di Manon Lescaut. Non è un caso se gli esempi citati abbiano trovato una loro dimensione cinematografica, il primo come colonna sonora della disneyana Fantasia, mentre il reimpiego del secondo ha arricchito il materiale musicale della trilogia Star Wars. I tromboni, tradizionalmente associati alla morte, fanno capolino nel secondo movimento, conferendo un velo inquietante, destinato a dissolversi nei contrasti tra buio e luce che conducono, senza soluzione di continuità, al vorticoso accelerando del terzo movimento.

Con i Carmina Burana di Carl Orff (1937), invece, si sceglie una strada più sicura e di indubbia potenza (non fosse altro per l’organico richiesto, una vera e propria parade dell’Accademia, dai maestri dell’orchestra al coro, voci bianche e solisti inclusi). I Carmina Burana di Orff rappresentano un tuffo nel Medioevo romantico, complice il testo di versi originali del XIII secolo che riaffiora, perfettamente comprensibile, in alcuni momenti dell’esecuzione con parole chiave quali «O Fortuna, velut luna», «In taberna quando sumus». È il Medioevo di Victor Hugo e di Viollet-le-Duc, di Quasimodo ed Esmeralda, il Medioevo torbido e romanzato, tra sacro e profano, tra vizi e virtù. È l’idea di Medioevo incorporata nella cultura occidentale e che spiega, ad esempio, il triplice successo dei libri della saga di Kingsbridge di Ken Follet (A Column of Fire, il terzo, pubblicato nel 2017 è già bestseller). Scelta interessante, ma esecuzione non all’altezza delle aspettative. Soprattutto nei punti di congiuntura. Si noti, tra l’altro, che la struttura dei Carmina, ovvero 23 brani accostati l’uno all’altro senza una sovrastruttura narrativa, prevede almeno 21 momenti di transizione. Dispiacciono gli attacchi non in sincrono e la presenza di un tenore in falsetto (Marco Santarelli, in foto) preferito a un controtenore per l’Elogio del cigno arrostito; il baritono (Dalibor Jenis) non ha un volume di voce sufficiente per dialogare con l’orchestra, mentre il soprano (Maria Chiara Chizzoni) risulta troppo metallico e pungente. Deliziose ed estremamente cristalline per precisione (e timbro) le voci bianche. Le componenti viaggiano a velocità diverse, incontrandosi a metà strada e la perfezione scientifica dell’esecuzione lascia il posto alla genuinità delle vibrazioni.

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