Pier Mario Fasanotti
A proposito di “Un romanzo russo”

Carrère e il reduce

Emmanuel Carrère scava nella vita ignota di Andràs Toma, un soldato ungherese perso in Russia negli orrori della guerra e mai più tornato lucido per "raccontare". Insomma, un reduce del Novecento

Che senso ha indagare su uno sconosciuto, considerato l’ultimo prigioniero della seconda guerra mondiale? La risposta è semplice: lo scrittore è affamato di misteri e di ombre, ancora di più se l’oggetto dell’indagine s’intreccia con la propria esistenza. Uno dei più grandi narratori europei di oggi, Emmanuel Carrère, parigino di 61 anni, ci offre un’opera magistrale e apparentemente strana: Un romanzo russo, Adelphi, 283 pag., 19 euro), in cui c’è un andirivieni tra la sua inchiesta e i propri turbamenti amorosi e non solo. Gli dicono, in un paese sperduto dell’ex Unione Sovietica, che l’ungherese Andràs Toma, classe 1925, «è come se fosse sempre stato solo». Fatto tornare in patria, i giornalisti si interessano di quest’uomo fisicamente menomato e mentalmente frastornato, ma alla fine la curiosità si esaurisce in poche righe di cronaca. C’è ben altro da raccontare, e Carrère lo intuisce, lui che è autore, non a caso, di un romanzo intitolato Vite che non sono la mia, di qualche anno fa.

Il suo treno si ferma a Kotel’nic, paese dove c’è poco o niente, tanto è vero che i russi dicono: “cut-cut”, ossia in culo al mondo. Qui, accompagnato da un operatore e un interprete (anche se l’autore conosce un po’ la lingua russa per via di antenati materni), chiede in giro nello sforzo di delineare la figura di Andràs, senza trascurare le cartelle cliniche del prigioniero magiaro. In queste si legge tra le altre cose: «Il paziente lamenta dolori al piede destro. Diagnosi: artrite. Bisogna consultare i familiari del paziente in merito all’amputazione.» Il paziente non ha alcun familiare. E ancora: «Il paziente non si lamenta. Fuma moltissimo. Comincia a camminare con le stampelle. Al mattino il suo cuscino è umido di lacrime». Già: perché piangeva?

Siamo nel 1996. E prima? Qui sta il difficile. Autunno del 1944, l’armata russa entra in Ungheria, la Wehrmacht comincia a ritirarsi. Settimane di grande caos, ovviamente, il potere filonazista è ancora al potere, le spietate Croci Frecciate, arruolano tanti ragazzi e compiono azioni atroci. A proposito di quest’ultimi, noi italiani ne siamo venuti a conoscenza anche grazie al film su “un giusto tra le nazioni”, ossia quel Giorgio Perlasca che salvò la vita a cinquemila persone spacciandosi per un diplomatico spagnolo.

Nel romanzo di Carrère si aprono lunghe parentesi personali. C’è il nonno, esule georgiano rifugiatosi a Parigi negli anni Venti dove pare abbia fatto vari mestieri, tra cui il tassista (“fa tanto chic per un principe russo”). Lo scrittore è affascinato dalla Russia: «Voglio trovare qui le mie radici, sapendo benissimo che sto dicendo una sciocchezza». Il lettore ovviamente sa che non sono sciocchezze. C’è la sua fidanzata Sophie, bella e dal carattere complicato, cui l’autore dedica un racconto ad alta tensione erotica che compare su un inserto di Le Monde. E lui immagina il sottile piacere di lei mentre sfoglia il giornale in pubblico. Carrère è molto attento all’erotismo, tanto è vero che scrive quanto segue: «C’è un’altra cosa che non finisce di stupirmi: non solo le donne sono nude sotto i vestiti, ma hanno tutte, tra le gambe, quella cosa miracolosa, e il fatto più sconcertante è che ce l’hanno sempre, anche quando non ci pensano. A lungo mi sono chiesto come facciano…».

Torniamo allo sfortunatissimo prigioniero di guerra. Il giornalista-narratore va all’ospedale psichiatrico di Kotel’nic, dove Andràs nel 1947 fu rinchiuso. La dottoressa Kozlova, diligentemente, ha scritto rapporti medici. La diagnosi è psiconevrosi. Corsia a nove letti. Andras ha dormito lì. Al momento delle dimissioni a nessuno è venuto in mente di avvisare l’ambasciata ungherese. Il prigioniero era come un bagaglio smarrito. Lì viveva, era come a casa sua, con la mente in un oscuro altrove. Al momento dell’internamento era sotto shock, aveva visto cose inimmaginabili. Per evitare che certe cose si ripetessero, visto che delle ultime vicende storiche non sapeva niente, faceva in modo di non farsi notare, non parlava e non comprendeva quel che gli dicevano. Pochi si accorsero che le sue rare parole erano in lingua magiara.

Continua l’indagine. Un certo Smolar racconta a Carrère che a diciott’anni Andràs era un bel ragazzo, moltissime ragazze avevano una cotta per lui. Non si dava arie, era di animo gentile e timidissimo. Pare che quando partì per la guerra non fosse mai stato con una donna. C’è una versione dei fatti per cui il giovane ungherese sia stato arruolato contro la sua volontà. La sua è stata una vita spezzata, e chissà quante ce ne sono state dopo l’avanzata delle belve naziste e gli orrori dei gulag sovietici. Il giorno (11 gennaio 1947) in cui Andràs arriva a Kotel’nic (era partito il 14 ottobre 1944 ) appaiono drammaticamente vuote le caselle della sua esistenza. Nessuno, nemmeno l’esercito ungherese, è riuscito a ricostruire le tappe del suo viaggio. Si sa che doveva avere compagni di prigionia in Polonia, e pure in un campo di Leningrado, e in altre località russe. Scrive Carrère: «Ciò che mi stupisce è che nessuno, dopo la guerra, sia venuto nel suo paese (lì infatti l’hanno trasferito, ndr) a parlare di lui alla sua famiglia, a mantenere viva la speranza che forse un giorno sarebbe tornato; e che mezzo secolo dopo, quando tutti i giornali hanno pubblicato il suo nome, la sua storia, la sua faccia da vecchio e da giovane, non sia saltato fuori nessun ex combattente che dicesse lo riconosco, eravamo nello stesso battaglione, nello stesso accampamento». Tristissima è la storia di questo reduce. In lui c’è più anonimato che vissuto. Rari i testimoni della sua vita. Come rari saranno poi i testimoni della nostra. Questo ci sembra dire Emmanuel Carrère.

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