Nicola Fano
Viaggio in Provenza (lontano da Parigi)

L’altro 5 maggio

A un anno dalla vittoria di Macron, la Francia - tra scioperi e proteste - si interroga sul proprio futuro. Le ricette sono diverse, ma tutti convergono su un unico principio: tutelare l'identità comune

A Nimes, sud della Francia, la movida del sabato pomeriggio è turbata appena un poco da un corteo mesto di una trentina di persone, uomini e donne, le quali in silenzio mostrano cartellini scritti a pennarello la cui peggiore invettiva dice: «Macron, ne touche pas à l’administration publique» senza nemmeno un punto esclamativo. Non una voce, non un fischietto, non una pur vaga intenzione di indispettire il prossimo: è solo il segno di una presenza. In Francia, oggi, 7 maggio, si festeggia il primo anno di Macron all’Eliseo. Si festeggia? Forse. I treni vanno a singhiozzo, gli aerei peggio, le vetrine dei McDonald’s di Parigi vanno in frantumi; si gonfia solo il populismo stile François Ruffin (il giornalista/deputato che trionfa in tv smontando le politiche dell’ex compagno di scuola Emmanuel Macron). E intanto i dipendenti pubblici, più disperati che preoccupati, manifestano in silenzio. Qui in Francia c’è una politica che non si fa in televisione da Fazio o dall’Annunziata, come lì da noi: i contestatori di Nimes, senza nemmeno un cappelleto rosso alla Camusso o un fischietto alla Landini, fanno molta impressione. Devono aver argomenti seri da difendere, di quelli che non fanno audience. La gente di Nimes lo sa: li saluta e li lascia passare dignitosamente.

Ma poi, lo sguardo gira a trecentosessanta grandi. Cominciamo proprio da qui, da Nimes: sud-ovest del Paese, al confine con la Spagna. L’Anfiteatro romano, delizia del turismo della zona, ha senso solo perché ospita le corride. Prima considerazione: la gente di Nimes, in questi giorni, più che degli scioperi è preoccupata per la partecipazione di Léa Vicens alla Feria di maggio. Se nomi e parole non vi sono famigliari, sappiate che a Nimes (come nella vicina Arles) la corrida (il rituale e spettacolare ammazzamento dei tori) è un elemento fondamentale dell’identità collettiva. E Léa Vicens, poco più di trent’anni, è la celebrità mondiale del momento delle corride. Ed è di Nimes: una sorta di vendetta tardiva della provincia francese sulla dominazione (culturale…?) spagnola. Sennonché qui c’è poco spazio, per ora, per il duello Macron/Ruffin. Dice il presidente che i tagli che sta operando un po’ ovunque (a dànno di tutti, ma soprattutto degli ultimi) serviranno a cambiare il volto delle banlieue, croce storica del paese, culla del radicalismo, del terrorismo e, soprattutto, delle disparità sociali. Se, girando per le strade, senti da una macchina uscire il tump-tump ossessivo di un’autoradio che urla, puoi star sicuro che viene dalla rabbia di qualche Majid o Abdelkader: è il loro modo per dichiarare ad alta voce che esistono e che reclamano il diritto ad essere come vogliono essere. Ma è proprio su questo (come devono essere?) che il Paese è spaccato in due. È stato Macron a dire che l’Europa è sull’orlo di una guerra civile. Tump-tump, tump-tump: le forze in campo – lo sa il presidente francese – sono gli altri. Chi vuole convivere con i Majid e gli Abdelkader e chi no (da noi hanno vinto i “chi no”). Insomma, è una questione interna a noi altri: non ho ancora capito se davvero in Francia le cose stiano così, ma certamente così stanno qui da noi dove gli ultimi “italiani” (che sono tantissimi, assai più di quanto non si creda o si immagini) giorno dopo giorno, ora dopo ora contendono piccoli spazi di sopravvivenza a coloro che loro e noi chiamiamo “immigrati”. Sono in molti a considerare questa una sfida ad armi impari: il problema è tutto qui.

Nimes, centocinquantamila abitanti, provincia còlta, turisticizzata e decentrata (pensate a Perugia, per esempio, per turismo e densità di popolazione) è fatta a cerchi concentrici come tutte le città d’Occidente. Salvo che a Nimes c’è un solo centro commerciale in periferia (pensate ancora a Perugia, ai suoi innumerevoli centri commerciali e capirete qual è la differenza tra l’Italia e la Francia). A essere ottimisti, si può pensare che la gente e i ragazzi di Nimes abbiano altro da fare che non sia sbattersi in un centro commerciale a compulsare filmatini sugli smartphone. Speriamo! E allora prendete Arles, Provenza estrema, poco più di cinquantamila abitanti (un parente italiano? Lucca, per esempio): non una tegola fuori posto, non una cartaccia in strada, un cordone villette a schiera abitate da arabi a ridosso del centro storico. Il mercato settimanale – enorme – è perfettamente diviso in due: si svolge sul boulevard che divide il centro storico dalla periferia e per metà è rivolto agli arabi e per l’altra metà a… come chiamarli?… i bianchi. Ma nel complesso si tratta di persone che condividono fraternamente le rispettive povertà. È lontana Parigi; è lontana l’invasione d’Algeria.

Anche qui ad Arles la vita giovanile ruota intorno alle chiacchiere più che intorno alle illusioni (e siamo in una cittadina tutto sommato povera, non nella dotta, universitaria Aix-en-Provence o nel simulacro di vecchia potenza di Avignon): viene da pensare che qui non abbia governato per decenni un uomo preoccupato solo di evitare la galera e vendere il proprio palinsesto. La mente corre a un certo Bernard Tapie, astro nascente della politica francese tra gli anni Ottanta e Novanta: presidente della squadra di calcio di Marsiglia, proprietario della Adidas, ministro di Mitterrand, grande elettore di Sarkozy. Processato per frode fiscale e corruzione, è stato condannato a molti anni di galera e assolto dalla sola accusa di bancarotta fraudolenta. Da anni è sparito: pensate alla differenza con la nostra esperienza. Comunque, Arles è una specie di Lecce, di Trani: una magnifica cittadina perfettamente restaurata con fondi europei meta di turismo di massa e intellettuale (nel Teatro Romano s’organizza un buon festival teatrale estivo, niente a che vedere con quello della vicina Orange). Ma la movida qui è lenta, poco alticcia e per niente televisiva: nella provincia francese c’è gente che parla, questo è l’incredibile.

Certo, altro è il resto della ricchissima Provenza (il confronto con la Toscana regge solo a metà): la cura dei luoghi e dei paesaggi è quasi maniacale. È sempre il solito discorso: un imprenditore di Chateuxneuf-du-Pape che adulterasse il proprio vino sarebbe considerato un assassino, un traditore della ricchezza condivisa: andate a chiedere qualcosa di simile a quei produttori vinicoli che rendono aromatico con lo zucchero il Moscadello di Montalcino! Nessuno in Francia rovinerebbe un camembert (che è puro patrimonio comune): si può dire lo stesso del nostro parmigiano? Fatto sta che, lontano da Parigi, la grandeur appare solo per quel che è: senso di appartenenza, identità. Il miglior antidoto per l’invasione delle menzogne e delle false necessità che, qui da noi, governano una politica fatta solo di aspirazione ai privilegi e un’imprenditorialità fatta solo di guadagni a qualunque costo. Per non parlare dell’epica (da noi altri) del cosiddetto bene comune che, negli anni recenti, ha trascinato nell’equivoco perfino antichi e illustri moralisti come Stefano Rodotà. Prendete Marsiglia (seconda città di Francia con quasi un milione di abitanti): al Mucem, un magnifico spazio accanto al Vecchio Porto recuperato alla vita grazie all’intervento architettonico di Rudy Ricciotti, il bene comune consiste in decine di comode poltrone sulle quali gli avventori si siedono liberamente per ammirare il via vai di barche nel mare. Non si ricordano atti di vandalismo né conflitti di attribuzione in proposito. Né c’è stato bisogno di occupazioni trendy. D’altra parte, la Francia è il Paese dove i giardini pubblici pullulano di poltrone “bene comune” che nessuno si sogna di vandalizzare o “occupare”.

Sarà per tutto questo che i francesi si fanno così tante domande sull’onestà politica di un giovane presidente che – in soli dodici mesi – è diventato l’unica risorsa spendibile dell’identità europea? «L’Europa non è il nostro solo orizzonte», mi ha risposto uno dei gentili manifestanti di Nimes. «E non è un caso che la nostra protesta si svolga il 5 di maggio – ha aggiunto. Questa data cambia di senso a seconda da come la si guarda». Sì, è vero, ma io credo che Macron lo sappia, mi sono permesso di suggerirgli.

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Le foto illustrano gli scontri tra politzia e black-bloc alla manifestazione del primo maggio scorso a Parigi

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