Alessandra Pratesi
Visto al Teatro Argentina di Roma

A lezione da Strehler

Perché l'Arlecchino di Strehler/Goldoni continua a catturare il pubblico dopo oltre settant'anni? Il passaggio di consegne da Ferruccio Soleri a Enrico Bonavera è l'occasione per tornare a riflettere su questa lezione di teatro

«Il Libro del Teatro mi fa conoscere con quali colori si debban rappresentar sulle scene i caratteri, le passioni, gli avvenimenti, che nel Libro del Mondo si leggono». Da quando ragionava sul teatro nella Prefazione alla prima raccolta delle sue commedie (1750), ne ha fatta di strada Carlo Goldoni. Oggi è l’autore di teatro italiano più rappresentato al mondo. Due secoli e innumerevoli commedie dopo, Goldoni, in Italia e all’estero, è diventato sinonimo di Arlecchino grazie all’allestimento del 1947 firmato Giorgio Strehler: Arlecchino servitore di due padroni.

Con la visione di Strehler, al libro del Mondo e del Teatro si aggiunge il libro della Storia: da una parte la riforma di Goldoni (che a ben vedere, forse, in questo caso è servita più a conservare e cristallizzare che a superare le forme della commedia dell’arte), dall’altra la firma di Strehler e l’interpretazione da Guinness dei primati di Ferruccio Soleri. Aveva ereditato il ruolo da Marcello Moretti, nel 1960. Una volta arrivato alla soglia degli 89 anni e al record di 2283 repliche, era giunto il tempo di passare il testimone a Enrico Bonavera, che dal 2002 si alterna con lui sulla scena: il 13 maggio 2018 Ferruccio Soleri si toglie per l’ultima volta la maschera di Arlecchino davanti al pubblico in visibilio del Piccolo di Milano. Il 15 maggio è al Teatro Argentina di Roma, dove rivolge al pubblico e ai colleghi un ultimo ringraziamento. Ed una confessione: «Ho capito che la capacità di non eccedere mai nel mostrarsi resta il più grande dei miei eccessi».

Il servitore di due padroni è una commedia di gusto classico, realizzata nel 1745 per la maschera Truffaldino dell’attore Antonio Sacchi, prima che Goldoni lanciasse la sfida delle sedici commedie in un anno al Teatro San Samuele, prima dell’avvio della riforma del teatro all’improvvisa, prima del suo trasferimento in Francia. Le maschere della commedia dell’arte ci sono tutte: gli zanni, i vecchi, gli innamorati; i lazzi non mancano, dallo sketch della mosca (qui reinventato), alle acrobazie a orologeria nella locanda. Il linguaggio del corpo è essenziale: «questi folletti o precipitosi cascanti», erano definite le maschere di servi come Arlecchino e Truffaldino da Pier Maria Cecchini già nel 1628. Arlecchino entra in scena saltellando e con salti e capriole si esprime, più che con le parole di un grammelot di intonazione bergamasca. Il corpo è un ingranaggio, studiato e impiegato nei minimi dettagli, con leve, molle e motori al servizio non dell’effetto mimetico bensì dell’effetto comico, negli assoli e non fino a formare «un nodo avviluppato» o «un gruppo rintrecciato», per dirla con Rossini.

L’intreccio segue le regole della commedia nuova plautina, con trovate non dissimili dalla Dodicesima notte di Shakespeare e dai Menecmi di Plauto. L’azione ruota, infatti, intorno al tema del doppio, soggetto metateatrale per eccellenza che a finzione aggiunge finzione: due sono i padroni, così come le identità di Beatrice-Federigo Rasponi; due i ‘vecchi’ (Pantalone de’ Bisognosi e il Dottor Lombardi) e due i servitori (Brighella e Arlecchino, Truffaldino nella versione goldoniana originale). Doppio, con Strehler, diventa anche il livello di metateatro della messa in scena. Dal 1947 il pubblico non assiste più alla storia di Truffaldino/Arlecchino che, pur di garantirsi la pancia piena, compie mirabolanti imprese e serve contemporaneamente due padroni. Ad andare in scena è lo svolgersi di una rappresentazione da parte di una compagnia di comici: Strehler porta in scena la tradizione della comicità all’italiana, con i suoi gesti e le sue gesta piccolo borghesi. Il campo dell’azione è delimitato da una piattaforma, non c’è sipario. Sulla piattaforma e intorno ad essa i personaggi agiscono, annunciano l’inizio e la fine di ogni atto, accendono e spengono le candele sul bordo. «La luce è la cosa più importante», sentenzia uno dei servi; «Da domani questa battuta la togliamo», «Così dice il copione» esclamano dal margine del quadrato magico. O ancora, Pantalone e il Dottore commentano: «Prossima stagione facciamo l’Edipo in abiti moderni». E quell’insistito «Più moderno!» che accompagna la recitazione di Pantalone. Pur essendo visibilmente il più anziano dei personaggi, data la sua postura e il colore della sua barba, presta la sua voce al punto di vista goldoniano mostrandosi attento a un processo di aggiornamento del modus recitandi, con prevedibile (ma non per questo meno efficace) effetto parodico nella declamazione accentuata e altisonante. La prima scena, non a caso, consiste in una serie di esercizi di riscaldamento ginnico, canoro e verbale. E non mancano gli intermezzi dedicati integralmente a fisicità o vocalità degli interpreti, come la tradizione del teatro italiano richiedeva. Quando Arlecchino corre a destra e a sinistra del palco per soddisfare le richieste dei padroni si sfiora l’opera buffa. Anche la Cenerentola rossiniana, strapazzata dalle sorellastre, correva di qua e di là per accontentarle entrambe: «Cenerentola vien qua. / Cenerentola va’ là. / Cenerentola va’ su. / Cenerentola vien giù», canta nell’atto I scena I.

Con l’Arlecchino di Strehler e Soleri, qualità e successo procedono di pari passo e scrivono una pagina di Storia. Il segreto del successo, il destino del repertorio e la deriva del contemporaneo: come la fede serba i suoi misteri insondabili, così il teatro. Dietro l’intuitività apparente e l’empatia comunicativa delle soluzioni drammaturgiche e registiche, si nascondono secoli di tradizione e di pratiche teorizzate, formalizzate, incorporate. Il teatro segue – o almeno dovrebbe – un codice di comportamento antico, con regole precise. Il teatro è arte, nel senso etimologico originario di tecnica, mestiere. Ne Il servitore di due padroni di Goldoni tutte le arti attoriali sono virtuosamente dispiegate. A Ferruccio Soleri il merito di averle incarnate. A Strehler il merito di averle esplicitate e rispettosamente avvicinate al nostro tempo, rendendo l’Arlecchino vivo e vibrante. Ancora una volta.

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