Alessandra Pratesi
Visto al teatro India di Roma

Il vortice Karamazov

La saga familiare dei “Fratelli Karamazov” si incarna nel monologo “Ivan” di Letizia Russo con Fausto Russo Alesi. Uno spettacolo colto e intelligente, allucinato e delirante

«Ancora ti chiedo, mi chiedo che cosa è questa famiglia Karamazov, la mia famiglia? Che cosa ha fatto per meritare tutta insieme una fama così grande?». Con questo interrogativo si apre e si chiude, senza davvero risolversi, il monologo di Ivan. Rivive ancora la vicenda della disgraziata e infelice famiglia Karamazov e prende la forma di un monologo: Ivan, in scena al Teatro India di Roma dal 12 al 22 aprile, per la riscrittura di Letizia Russo e la regia di Serena Sinigaglia. Si tratta di una riflessione, di un ricordo, di un’allucinazione. Una sorta di “Spiral Composition” che dalla struttura drammaturgica si riverbera sulla scena (a cura di Stefano Zullo) composta da una spirale di ferro a sorreggere pagine manoscritte. La struttura elicoidale assurge a simbolo implacabile e metafora visiva di una maledizione familiare che scorre nel Dna dei fratelli Karamazov.

Le sequenze narrative del testo originale sono rispettate, ma riordinate e concentrate seguendo il punto di vista del secondogenito Karamazov che dà il nome alla pièce. Ivan presenta la famiglia di appartenenza, in particolare il losco figuro del padre dissoluto. Racconta, in un flashback rivissuto in scena, il dialogo con il fratello minore Alëša e illustra l’idea per un poemetto dedicato alla leggenda del Grande Inquisitore. Immagina Alëša in un punto imprecisato della sala, originando un’indeterminazione funzionale ad accentuare il coinvolgimento del pubblico, interpellato in prima persona a partecipare al logorio spirituale, morale e mentale di Ivan. La violenta morte del padre, infine, e quello stato psicotico, allucinato e delirante dal quale Ivan non può sottrarsi, vittima di se stesso e della propria immagine mentale del demonio. È una sinfonia per voce sola nella quale si ripropongono, condensate, le sempre attuali domande sulla genitorialità, sulla religione e sulle ingiustizie del mondo, sui binomi vita-morte, bene-male. Martellante si ripete il dubbio amletico: «Dio esiste oppure no?», di cui sono corollario altre affermazioni e interrogazioni del calibro di «il regno dei cieli è sopravvalutato», «se il diavolo esiste, è stato l’uomo a crearlo a sua immagine e somiglianza», «un sangue marcio merita giustizia?», «gli uomini soffrono ma è per questo che vivono davvero». Il monologo risulta magnetico e convincente, capace di mantenere un’alta temperatura emotiva; perde smalto nella seconda parte, però, quando viene sovvertita e alterata la percezione di un tempo che si fa più dilatato e sfrangiato. Si avverte un rilassamento che vira verso volgarità e non-sense, ma è il momento del delirium: tutto è lecito. Un’accurata modulazione delle luci e della musica, a cura di Roberta Faiolo, concorre a marcare i passaggi narrativi. Una combinazione di effetti acustici e di citazioni alla tradizione musicale liturgica è efficace accompagnamento della tragedia che si consuma sulla scena: campane echeggiano in lontananza; una goccia d’acqua cade – con effetto giardino zen prima, tortura cinese poi – all’acme dello stato allucinatorio; si levano cori di chiesa e, sopra tutti, l’Osanna in Excelsis dalla Messa in Si minore di J.S. Bach cantato e ballato durante la pazzia con effetto di rovesciamento parodico in versione pop-disco.

Per 70 minuti l’attore Fausto Russo Alesi è unico motore immobile dell’azione. Punto di partenza: un’inquietante simmetria con il ritratto noto di Dostoevskij e un quaderno di pelle nera come unico oggetto di scena. Ed un calibratissimo e camaleontico lavoro sulla voce e sul gesto. È il ventitreenne di belle speranze Ivan, è il novantenne ossuto implacabile Inquisitore della Siviglia del Cinquecento, è il Cristo eretico, è il folle disperato ucciso dai sensi di colpa per la morte del padre. Assume la posa di un predicatore con le braccia dell’orante, del monaco stilita accovacciato sulla sua colonna, oppure del Cristo in croce, in piedi frontale volto contrito. Assume la voce del Dostoevskij autore dei Fratelli Karamazov, dell’Ivan autore del poemetto dedicato alla leggenda del Grande Inquisitore, dei Vangeli che raccontano le tentazioni di Cristo nel deserto, del diavolo dandy provocatore e mellifluo con erre moscia, inglesismi, francesismi e nessun pelo sulla lingua. Il risultato è iconico e proteiforme, l’interpretazione appassionata e appassionante, densa e caleidoscopica, incorporata e straziante. Come Dostoevskij, così lo spettacolo.

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