Alessandra Pratesi
Visto al Teatro Eliseo di Roma

Don Chisciotte cabaret

Convince solo a metà la "modernizzazione" in chiave televisiva (tra Zelig e Colorado) del Don Chisciotte di Ruggero Cappuccio. Confondere la vita e il sogno è una vecchia storia...

«Cosicché per il poco dormire e per il molto leggere gli si prosciugò il cervello, in modo che venne a perdere il giudizio. La fantasia gli si riempì di tutto quel che leggeva nei libri, sia d’incantamenti che di litigi, di battaglie, sfide, ferite, di espressioni amorose, d’innamoramenti, burrasche e buscherate impossibili». Nell’era del postmoderno, un Don Chisciotte 2.0 è verosimile? Di parere positivo è Ruggero Cappuccio, autore, regista e interprete di Circus Don Chisciotte, andato in scena al Teatro Eliseo di Roma e ora in tournée.

L’effetto Calderón, di chi non distingue la realtà dalla finzione, la veglia dal sogno, non ha epoca. E così lo si ritrova indomito nel Seicento barocco come nell’Ottocento romantico, fino al Novecento alienato, cinico e patinato. Confondere i sogni con la realtà è un vizio connaturato all’uomo, sua salvezza e dannazione. Ruggero Cappuccio, artista della scena e penna poliedrica, ha creato la sua versione del classico cavaliere stralunato e lo ha ambientato nella Napoli di oggi, negli interstizi in penombra di una stazione ferroviaria abbandonata ai vagabondi. Sul fondo della scena una scritta funge da memento mori richiamando alla mente la teoria logico-filosofica dei corsi e ricorsi storici: «Istituto italiano per studi filosofici Giambattista Vico». L’ostentata commistione con l’attrezzatura della scena teatrale immette in un contesto familiare al pubblico di Zelig e Colorado. Come in un grottesco gioco di specchi, una parodia del passato diventa chiave di denuncia del presente.

È una dimensione in cui «il tempo non ha tempo», afferma vanaglorioso e semiserio Cappuccio nei panni di Michele Cervante, professore universitario che ha abbandonato cattedra e burattini per vivere di soli libri ai margini della società (e della lucidità). Sogna la rivoluzione e il ritorno ai tempi dei cavalieri della Tavola Rotonda; i mulini a vento e i giganti restano suoi acerrimi nemici, ma assumono le forme delle pale dell’aria condizionata e si aggiunge il vero grande nemico: «l’ambivalente reame del blog», la rete che tutto divora e dentro il cui vortice la genuinità dei legami interpersonali si perde a favore dell’evanescenza virtuale. Le armi di Cervante-Don Chisciotte, oggi come allora, i libri: non più i poemi cavallereschi, ma i classici della modernità da Kant a Stendhal, da Spinoza a Musil, passando per Oz, Roth, Pennac, Sepúlveda e il nume tutelare Umberto Eco. Un racconto-ammonimento sui tristi e vuoti tempi che currunt, in cui si erra e si vagabonda. Come i paladini, ma senza Santo Graal.

Operazione pienamente lecita. Nelle premesse. Le prove attoriali sono dense e complete, coinvolgono il gesto e la parola: Ruggero Cappuccio parla un itagnol aulico, ricercato, altisonante con voce modulata sui toni dell’epica dei cuntisti siciliani; Giovanni Esposito, nel ruolo dello scudiero Salvo Panza, si destreggia bene nella natia lingua partenopea farcendola delle movenze da zanni della commedia dell’arte e mettendolo al servizio del professor-cavaliere e di un dialogo ora non-sense ora sui massimi sistemi. Bravi pure gli altri (Ciro Damiano e Letizia Celestini nel ruolo degli ex-ristoratori, Giulio Cancelli come il Duca Meraviglia, una principessa siciliana interpretata da Marina Sorrenti), ma non altrettanto meritevole di lode la funzione dei loro personaggi all’interno della drammaturgia.

Nella prima parte dello spettacolo, dominata dalla coppia cavaliere e scudiero, si galleggia in un tempo che non ha tempo, si mettono in discussione il senso comune delle parole e il principio di identità e non contraddizione, si ragiona su origini e destinazione delle umane genti; un marcato gusto comico-grottesco incline alle ripetizioni ridondanti garantisce la facile effimera risata fine a se stessa, ma rappresenta un’unità teatrale autonoma e coerente. Nella seconda parte, invece, si cambia marcia e si procede per accumulazione di persone, situazioni, sketch perdendo, nei dettagli, la visione d’insieme. Il finale strizza l’occhiolino alla retorica intellettualistico-enciclopedica di Fahrenheit 451 arrivando con il fiatone ad una parvenza di epico. Come in un sogno interrotto prima che sia possibile ambientarsi, la pièce resta sospesa tra apprezzabilissime aspirazioni etico-letterarie ed esiti cabarettistico-circensi. Sogno o son desto?

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