Danilo Maestosi
Vista al Museo di Roma

Una Babele fantasma

Gloria Argelés intreccia i segni di una società che ha perso senso. Fil di ferro, tele e colori come in una scultura che confluisce in pittura: non il marchio d’infamia del caos ma solo l’eco di una sconfitta da cui risollevarsi per ripartire

Babele. Inflazionata dall’uso comune, credo che la citazione si sia ormai appiattita in negativo ad indicare in modo indifferenziato il caos, la difficoltà di convivere con la differenza e trarne buon frutto, lo spaesamento, la paura che ne deriva. Del racconto biblico sopravvive nell’era dei grattacieli soprattutto l’immagine della fine, immortalata in un perpetuarsi di icone e rappresentazioni, dai quadri di Brueghel alla carte dei tarocchi: la maledizione di Dio che punisce con il crollo la sfida di quella torre protesa ad arrampicarsi verso il cielo. Un senso di vendetta inflessibile e spietata che però solo il radicalismo islamico continua oggi ad alimentare, e ad imitare. E le ultime derive impazzite del pensiero laico e globalizzato del mondo Occidentale hanno piegato invece a metafora minacciosa di orrori e di danni del multiculturalismo che ci incalza, dei migranti che ci invadono , dei muri da innalzare a difesa.

Un bel rischio, dunque, scegliere proprio Babele a titolo di una mostra come quella con cui Gloria Argelés, argentina da oltre mezzo secolo trapiantata in Italia, presenta al pubblico romano un campionario delle sue ultime ricerche.

Un doppio rischio. Il primo, di precipitare nella scontata visione della tradizione iconografica. Il secondo, almeno per chi ha nel sangue come Gloria Angeles gli anticorpi di una cultura di sinistra, di sconfinare nel già detto della denuncia usa e getta, nella banalizzazione politicamente corretta di un insieme di opere-manifesto. L’autrice affronta e supera entrambi gli ostacoli con un colpo d’ala sorprendente che, oscillando tra la sua interiorità e la realtà che la circonda, la guida e ci guida verso un’altra terra di significati e allusioni intense e sottili, di verità più profonde e complesse. E fa di questa mostra, relativamente piccola, relegata in uno spazio pubblico marginale e ad altra vocazione, il Museo di Roma in Trastevere di piazza Sant’Egidio, la pagina più stimolante di questa stagione espositiva romana.

È una terra popolata di fantasmi e di ombre, la Babele di trasparenze e riflessi, ossessioni e dissolvenze, quella cui Gloria Angeles ci introduce e ci sgrana davanti come uno specchio. Nulla di più lontano, in apparenza, da quel credito di scultrice che si era costruita per gran parte della carriera, ricavandone stima e successo di nicchia. Un salto di stile maturato nell’ultimo decennio, quando un’intossicazione da solventi e colori con cui trattava le figure che scavava soprattutto nel legno, l’ha costretta ad abbandonare la scultura, per riscoprire il piacere e il mistero del disegno. E poi quando le tenebre, le ombreggiature e le sfumature del segno, l’hanno riportata con nuovi occhi e un nuovo gusto alla scultura, verso il dinamismo sincretico e la contaminazione visiva di istallazioni con cui registrare il viaggio di andata e ritorno dalle tre dimensioni del modellato alle due dimensioni della forma disegnata e alla nebulosa del chiaroscuro, attraverso le rifrazioni di un proiettore luminoso. Un trucco da teatro e da set cinematografico, non alta tecnologia.

Ha così cominciato a scolpire corpi col fil di ferro usando come supporto le maglie larghe di un reticolato che restituisse l’esattezza della sagoma ma permettesse di attraversarla con un fascio di luce, e consentisse di fissarci su altri innesti colorati, in modo da preparare e dosare l’ultimo stadio, quello ottenuto sulla parete alle spalle dal fascio di un faretto ben orientato.

È un processo di trasfigurazione che la mostra documenta e traduce in un colpo d’occhio di straordinario impatto nella seconda sala. Lo sguardo è subito catturato dalla visione che domina la parete di fronte: è l’immagine di copertina della mostra. Ecco la torre di Babele, raffigurata nei canoni della tradizione come uno ziggurat babilonese abbracciato da una rampa a spirale di scale che si avvita verso l’alto: il disastro che ne causerà la fine è quella lingua rossa di fuoco e di fumo che ne inghiotte la cima. Ma a ricomporre l’effetto finale è un riflesso di luci catturato da un riflettore. La Torre di Babele? E solo un miraggio, il concretizzarsi di un’immagine che, recuperata dalla memoria, ci consente di riconoscerla con la stessa evidenza di un esperienza di vita vissuta. Un fantasma come tutti i sogni, le allucinazioni, le fantasie, i pensieri che nascono dai nostri ricordi, anche quelli più remoti e rimossi che confluiscono nell’immaginario collettivo. E come un fantasma ci appare anche, a fare un paio di passi indietro, la figura di fil di ferro della Torre, sovrastata da una massa incombente di innesti di tela e altri inserti di plastica che simula il fumo e le fiamme. La scultura che confluisce in pittura e la pittura che ne cattura l’ombra. Una storia che genera infinite storie, fini che si ripetono all’infinito e magari cambiano corso, come suggerirebbe Borges concittadino e nume tutelare della Argelés. Libero ognuno di ritrovare come filo d’Arianna la propria. Più che una punizione irreversibile ed eterna, dunque, la Torre di Babele diventa in questa fascinosa rilettura non il marchio d’infamia del caos ma solo l’eco di una sconfitta, personale e di specie, nostra e altrui, da cui risollevarsi per ripartire, un attestato esistenziale da rielaborare, una prova della fragilità umana da non consegnare alla gestione di Dio. E tanto meno a quella del Diavolo. O di chi ne fa le veci.

Come i terroristi di Al Qaeda e il loro assalto suicida alle Torri gemelle di NewYork, tremila morti tra le fiamme e sotto le macerie. Un’ossessione da cui la Argelés prende temporaneo congedo, prima immortalando in un quadro il vuoto che si è aperto nello skyline di Manhattan, poi avvicinandosi e distaccandosi dalla tragedia su una decina di fogli, increspati da sagome incollate a rilievo, che ritraggono corpi bianchi sul bianco i gesti e le reazioni dei soccorritori. O come gli aguzzini della dittatura militare argentina e le migliaia di vittime scomparse che si sono lasciati alle spalle. Ecco su un altro foglio una panoramica di Los Angeles, il cielo e lo sfondo invasi da una bruma cupa di vecchie fotografie di desaparecidos.

Fantasmi vecchi e nuovi che l’autrice riaffianca nell’ultima sala, costellata di ritratti di grandi personaggi del Novecento, sbalzati nel fil di ferro e poi ricomposti e rianimati in proiezione con viraggi di colore. Marx, Freud, Hannah Arendt, Gandhi: icone che Gloria Argelés ci invita a rivisitare come tracce di una Storia scomoda da attraversare con lo sguardo al presente e al futuro. Ombre accanto ad altre ombre sgranate lungo il percorso ad evocare il tormentato affacciarsi e avanzare sulla scena del mondo di oggi del popolo dei migranti. Ai due estremi della galleria un ennesimo richiamo ammonitore alla Torre di Babele che vien giù.

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