Alessandra Pratesi
Visto al Teatro Quirino di Roma

L’assurdo secondo Pirandello

Diretto da Liliana Cavani, Geppy Gleijeses riporta in scena "Il piacere dell'onestà“, un classicissimo Pirandello che sfida le regole della logica fino a sfociare nell'assurdo. Con qualche decennio d'anticipo

Lui, lei, l’altro. Dalla commedia nuova alla commedia dell’arte, dai palcoscenici dei teatri lirici alla drammaturgia borghese, il cuore del plot a teatro non è variato. L’amore, la famiglia, i figli, gli obblighi sociali. Luigi Pirandello non è da meno: esattamente cento anni fa componeva Il piacere dell’onestà. A poco più di un secolo dalla loro prima apparizione al Teatro Carignano di Torino il 27 novembre 1917, i personaggi pirandelliani tornano alla Pergola di Firenze (13-21 marzo) e al Quirino di Roma (3-22 aprile) con Il piacere dell’onestà. Liliana Cavani, classe 1933, firma quella che è solamente la sua seconda regia teatrale. Dopo una lunga e onorata carriera al cinema, la regista aveva esordito a teatro proprio al Quirino, a inizio 2018, con Filumena Marturano, commedia di Eduardo del 1947. Trent’anni di distanza, due storie diverse, nate da penne diverse, da due Italie diverse. Eppure, non poche le affinità elettive, nel testo come nell’esito registico. La Cavani porta in scena, con nitida eleganza, storture e difetti di una patinata e decadente borghesia bene di primo Novecento. E lo fa con uguale gusto e discrezione. La sua è una regia che presenta, ma non orienta; ordina, ma non scardina. Fedele al testo originale fino al parossismo, dispone le pedine sulla scacchiera del gioco teatrale affidando all’interpretazione accurata e approfondita degli attori il compito di restituire le pieghe del testo, eduardiano o pirandelliano. Voce maschile protagonista in questa sorta di restaurazione del teatro di prosa puro, è Geppy Gleijeses, attore esperto e navigato, dall’incontro con l’anziano De Filippo fino alla direzione artistica del Teatro Quirino: a gennaio Domenico Soriano ad aprile Angelo Baldovino.

Tre atti senza soluzione di continuità per Il piacere dell’onestà. Il cambio di scena (Leila Fteita) consiste in un cambio di mobilio, passando dai toni caldi del legno fine Ottocento al design razionalista dell’acciaio di primo Novecento. Dieci mesi. Il tempo della gravidanza indesiderata di Agata Renni (una Vanessa Gravina prima isterica, poi orgogliosamente compita ed energica). Porta in grembo il figlio di un amore adulterino con grande preoccupazione di tutti, la madre Maddalena (una civettuola Tatiana Winteler) e l’amante, il marchese Fabio Colli (un afono, ma non per questo meno incisivo, Leandro Amato alla replica del 5 aprile). Il cugino di lui, Maurizio Setti (uno spiritoso e vispo Maximilian Nisi), si propone di trovare una via d’uscita e di salvare l’apparenza di onestà. Chiede ad Angelo Baldovino (Geppy Gleijeses), nobile decaduto con il quale ha condiviso gli studi giovanili, di sposare Agata perché sia salvo l’onore di lei e così pure le sue decadute finanze, indebitate dal vizio del gioco.

Si preannuncia come commedia borghese degli equivoci, prende la forma di una reductio ad absurdum grazie alla logica serrata di Baldovino, una macchina teatrale camaleontica e precisa nell’economia di gesti e sguardi che affida la sua espressività, più intellettuale che emozionale, all’eloquio. La musica (a cura di Teho Teardo), assente se non negli intermezzi tra un atto e il successivo, accompagna nella forma di un violoncello di sottofondo i ragionamenti di Baldovino. Maschera stessa dell’assurdità tirannica dell’Onestà, è pura forma, vaga astrazione, privo di corpo e di contatto con la realtà, annulla ogni possibilità di azione e di felicità nelle dinamiche familiari incentrate sul rispetto delle convenzioni borghesi di un’arcaica società della vergogna. Si presenta in scena timido, con un triste abito marrone, occhiali e cappello in mano. «Noi ci costruiamo» sentenzia, dichiarandosi da subito consapevole dell’inevitabile frantumazione dell’io e della morale e proponendosi come suo volenteroso paladino restauratore. È un tiranno e un affabulatore. Sposa per finta Agata ma sul serio l’onestà, di cui prova un piacere pari a quello dei «Santi negli affreschi delle chiese». Parla – per sua stessa ammissione – «un linguaggio asfissiante, quello di un’onestà fittizia e contro natura».

Marito e amante devono giocare la loro parte sino in fondo, e se all’amante spetta il compito di battersi per l’onore della donna (così sarà nel Giuoco delle parti, di un anno successivo), allora il marito di facciata deve vigilare affinché tutte le formalità sociali siano rispettate. Come i puri di cuore, i bambini e i pazzi, a dire che il re è nudo è solo Baldovino, il quale non ha paura di chiamare le cose con il loro nome e senza false ipocrisie: dalla moralità rigorosa ed esemplare entro le mura domestiche e in ufficio, dal nome del nascituro al luogo del battesimo, le conseguenze formali dell’Onestà sono portate all’estremo. Il risultato è straniante, in bilico tra l’assurdo beckettiano e l’assurdo matematico. Ma quando il piacere dell’Onestà contagia anche Agata, che una volta madre doveva uccidere l’amante, c’è com-passione e intesa tra i due coniugi. Baldovino piange. E con lui il pubblico, dopo aver seguito il lavorio mentale e morale di una famiglia costruita sul senso della Prudenza e dell’Apparenza, dopo aver riflettuto sulle fondamenta di una società in fondo non così lontana, dopo aver sperato in un lieto fine impossibile quanto impensabile. E mentre le luci si abbassano, Baldovino-Gleijeses indossa gli occhiali. Forse desidera mettere meglio a fuoco la sua condizione, perché «quando uno vive, vive e non si vede». E intanto il pubblico osserva e vede se stesso riflesso sulla scena: ecco il piacere onesto del teatro.

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