Andrea Carraro
A proposito de “Il bene e gli altri”

Dante, per esempio

Dante, anti-italiano (in quanto pervaso di rigore e di etica), può far da guida alla nostra indispensabile rinascita. Grazie all'uso "giusto" dell'immaginazione, come spiega Filippo La Porta

Il bene e gli altri. Dante e un’etica per il nuovo millennio – appena stampato dalla Bompiani – nuovo libro del critico e saggista Filippo La Porta – ha il merito di agganciare senza indugi la Commedia dantesca, e la stessa figura di Dante, alla nostra prospettiva storico-morale, attraverso la determinante mediazione di una grande filosofa-teologa moderna, Simone Weil – partendo dalla sua idea di realtà/irrealtà, laddove nei Quaderni parla di “irrealtà del male”. «È bene ciò che dà maggiore realtà agli esseri e alle cose, – scrive Simone Weil – male ciò che gliela toglie». E ancora: «Il bello è la presenza manifesta del reale». Filosofa di ispirazione cristiana, scomoda a tutte le chiese, che sta vivendo un periodo di riscoperta (per Alfonso Berardinelli, «il maggiore filosofo del Novecento», grazie alle sue numerose alterità; vedi il lungo, recente intervento del critico su Minima Moralia), la Weil è una singolare figura di eretica che fece scelte radicali, fino al sacrificio di sé; perfetta dunque per dialogare idealmente con un poema che è prima di tutto il racconto di una rivelazione mistica.

Il cortocircuito fra Dante e Simone Weil avviene soprattutto sul terreno dell’etica, in quella che per l’autore è l’idea germinale del poema dantesco: e cioè che il male nasca da un perverso uso dell’immaginazione, quella particolare disposizione che la filosofa Iris Murdoch classifica come fantasy (menzognera, irreale) contrapposta a imagination che invece è l’immaginazione virtuosa in quanto “riconosce l’essere che è altro da sé”. Nelle prime pagine l’autore quasi chiede scusa al lettore per la propria “temerarietà” – così la definisce – nell’aver scelto di cimentarsi per la prima volta con una materia così complessa e ardua, soffermandosi sui “moventi autobiografici” che l’avrebbero determinata (legati al suo ruolo di padre-pedagogo), anche se in realtà c’era già stato Poesia come esperienza (Fazi, 2013) in cui campionava la poesia italiana e straniera in una trentina di medaglioni, uno dei quali proprio su Dante. Quanto a Simone Weil, è un suo autore di riferimento, si è occupato ripetutamente di lei, fra l’altro in Maestri irregolari (Bollati Boringhieri). Conoscendo l’autore si potrebbe perfino dire che questa congiunzione fra Dante e Simone Weil fosse nell’aria e cercasse soltanto l’occasione per esprimersi. Fatto sta che nel viaggio di La Porta all’interno dell’opera dantesca (più esperienza che viaggio, in verità, come la definisce lui stesso) la grande mistica tedesca c’entra parecchio. Potremmo quasi affermare, seguendo una suggestione del libro, che Simone Weil rappresenta per l’autore in questa avventura critica una guida, quasi un Virgilio di secondo grado, se fosse possibile esprimersi così.

A ogni modo, di questo felice personal essay, mi porterò dietro, fra le altre cose, una gustosa definizione di Dante come inconsapevole autore di autofiction: «Tutta la sua opera si presenta come un’immensa autofiction – per citare un genere oggi in voga – in poesia e in prosa… [dove Dante] parla impudicamente di se stesso (…) trasforma la sua stessa biografia in un palcoscenico – conclude l’autore – dove si svolge un ininterrotto dramma filosofico, teologico, esistenziale». E poi mi porterò dietro la riflessione di Primo Levi ad Auschwitz, che non ricordavo, sulla figura di Ulisse, «al tempo stesso peccatore ed eroe tragico dell’Umanesimo». E certo mi capiterà di ripensare alla alterità di Dante rispetto al nostro carattere nazionale, con il suo rigore morale, così com’era e così come si è formato nei secoli successivi, con quell’annotazione, proveniente da Borges, secondo cui i grandi sono spesso oppositivi rispetto alla propria stirpe di appartenenza (Dante anti-italiano, Shakespeare anti-inglese, Goethe antitedesco ecc.). E certi accostamenti iconografici, poi, come quello che segue su una pellicola che tanto ha inciso nel nostro immaginario postmoderno, ragionando sui versi danteschi dedicati ai sette vizi capitali, «vera e propria enciclopedia delle passioni umane», commentati con cura uno alla volta, come in queste righe sui golosi: «I golosi sono immersi in un fango schifoso, sotto una pioggia continua e tenebrosa (come in Blade runner) dilaniati dal cane Cerbero. Mentre nel purgatorio hanno una tale orrenda magrezza – pallidi, scarnificati e con gli occhi incavati – che potrebbero rappresentare il sogno perverso o l’utopia beffarda della mania attuale delle diete». Un passo che evidenzia la qualità particolare della scrittura di La Porta, sempre votata alla molteplicità dello sguardo critico, alle mescidazioni e connessioni storico-temporali, sempre pronta a volgersi in “critica della cultura”, in satira sociale.

Vorrei concludere con uno degli EXEMPLA, nel capitolo omonimo, verso la fine – fra i più ispirati – con il primo di essi (in tutto sono otto), titolato Abbassare lo sguardo – nel quale sembrano armoniosamente fondersi le doti descrittive dello scrittore e quelle interpretative del critico: ci troviamo nella seconda cornice del Purgatorio, quando Dante si imbatte negli Invidiosi, «che poiché in vita guardarono con astio i beni mondani altrui, la felicità del prossimo (in-videre), ora hanno le palpebre cucite con un fil di ferro. Stanno lì, appoggiati gli uni agli altri, come quelle folle cenciose di mendicanti, storpi, non vedenti che nel Medioevo di Dante si raccoglievano intorno alle chiese e che sembrano uscite da un film di Luis Buñuel. Di fronte a loro è preso da estrema compassione e decide di abbassare lo sguardo: “A me pareva, andando, fare oltraggio/ veggendo altrui non essendo veduto/ per ch’io mi volsi al mio consiglio saggio”». E la spiegazione che ne fa La Porta è mirabile e ha il dono della sintesi, esprimendo perfettamente quell’assunto di tutto il saggio che il bene, la realtà, significhi prima di tutto far esistere l’altro, anche nel pudico rispetto della sua condizione degradata: «Nessuno di loro può accorgersi dell’”oltraggio”. No, si tratta soltanto di una scelta solitaria del poeta. Prova vergogna nel vedere qualcuno che non può vedere lui, perché ciò gli darebbe una condizione di superiorità». Quante volte abbiamo provato noi quel pudore?, quel turbamento?, mi è venuto da pensare richiudendo il volumetto e trovandogli un posto nella mia affollata biblioteca.

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