Roberto Verrastro
Un giallo tedesco ambientato nelle Marche

Verità nascoste (all’italiana)

“Gli occhi della Medusa” di Bernhard Jaumann. L'autore bavarese immagina una vicenda che richiama le Br, il caso Moro e il ritratto di un Paese (il nostro!) con molti scheletri negli armadi

Forse per la distrazione indotta dal mito televisivo di Derrick, sono passati in gran parte inosservati gli autori che alimentano in Germania una vasta produzione letteraria di genere giallo. Tra i più notevoli dell’ultimo decennio è il 60enne Bernhard Jaumann, bavarese come il celebre ispettore, che ha ambientato due trilogie in Paesi che conosce per avervi trascorso molti anni: uno è l’Italia. Nel 2009 Jaumann si piazzò secondo al Deutscher Krimipreis, il più importante premio tedesco al miglior giallo dell’anno, con Gli occhi della Medusa, romanzo pubblicato dall’editore berlinese Aufbau (296 pagine, 9,95 euro, ebook 6,99 euro), che concludeva una trilogia ambientata nel borgo marchigiano di Montesecco, nella provincia di Pesaro e Urbino. Fu l’ultimo e decisivo scalino per la vetta che Jaumann raggiunse nel 2011 con il primo volume di una trilogia che si svolge in Namibia, terminata nel 2015.

Con Gli occhi della Medusa, che ha per sottotitolo Un romanzo di Montesecco, uno dei posti più tranquilli d’Italia diventa nella finzione narrativa il luogo di una tragedia lunga cinque giorni. È infatti il 14 gennaio del 2008, quando a Montesecco arriva un’auto nera che ben risalta nel paesaggio innevato, com’è noto al misterioso attentatore che la attende con un micidiale lanciagranate di fabbricazione sudafricana. Un’esplosione dopo l’altra e la vettura ingoia in un inferno di fiamme e rottami incandescenti chi si trovava al suo interno: Umberto Malavoglia, da tre anni procuratore capo della Repubblica di Roma, già figura di primo piano nella lotta alle Brigate Rosse, e il suo autista Giuseppe Jacopino. Tra le voci che nel borgo commentano la strage, Ivan Garzone, il proprietario del bar, deplora il fatto che «bisogna sedersi davanti al televisore, per capire cosa sia successo nel proprio villaggio». Un’affermazione molto ingenua. L’irruzione del terrorismo nel luogo più inatteso della provincia italiana, sui canali televisivi nazionali non può che ottenere il massimo spazio, riempito dalla commemorazione delle vittime, specialmente da parte del commosso ministro dell’Interno, De Sanctis. Sì, ma che ci faceva Malavoglia a Montesecco?

Dal borgo è sparito il diciassettenne Minh Vannoni, in passato in cura per problemi psicologici ora al centro di approfonditi dibattiti televisivi. È un piccolo genio informatico dal cognome italiano e dal nome vietnamita in omaggio al leader rivoluzionario Ho Chi Minh (per via delle origini del padre, che non ha mai conosciuto), che pare essersi barricato con il computer nella sua stanza, prendendo addirittura in ostaggio quattro agenti della Polizia di Stato e minacciando di ucciderli come il procuratore Malavoglia, nemico del popolo, se non saranno rilasciati dodici brigatisti detenuti. La madre di Minh, che si avvicina alla casa per ricondurre il figlio alla ragione, viene allontanata a rivoltellate. E i giornalisti accorsi sul posto puntano la loro attenzione sul nonno del ragazzo, Matteo Vannoni, un ex di Lotta Continua che in gioventù lanciò alcune Mollis (in tedesco le bottiglie Molotov) contro militanti neofascisti e oggi è un appassionato lettore di Roberto Saviano.

Dall’indirizzo mihnvannoni@yahoo.it, il 15 gennaio il terrorista in erba invia alla Polizia di Pesaro un comunicato che riporta la memoria degli italiani ai giorni del sequestro Moro, in confronto al quale le modalità operative con cui le BR si sono riaffacciate decenni dopo sembrano alquanto mutate: «Ieri alle 11.30 il commando 16 marzo ha posto fine alla miserevole esistenza di Umberto Malavoglia, figlio di un industriale ex funzionario della Democrazia Cristiana… come procuratore capo della Repubblica, era uno dei più zelanti scagnozzi dell’apparato repressivo dello Stato contro il proletariato combattente per la libertà e la giustizia, in una situazione in cui, dietro il paravento della globalizzazione, appare più spudorato che mai il volto odioso dell’imperialismo statunitense. Malavoglia ha ricevuto il conto per i suoi crimini contro il popolo. Non sarà l’ultimo. Organizzare la resistenza! Fare la rivoluzione! Vinceremo!». Con il passare delle ore, i toni di Minh si fanno ancora più duri: «Pensate di potermi prendere per il culo?», scrive, notando che le sue richieste tardano a essere accolte. «Gli ordini li do io e nessun altro».

Ma il diavolo sta nei dettagli. Di una pizza. Al sequestratore e ai sequestrati ne giungono cinque, tutte al prosciutto. Minh, quello che dà gli ordini, è vegetariano, come sanno i suoi compaesani che lo conoscono da ben 17 anni e che, dopo essersi fatti largo a suon di rudimentali cariche esplosive, il 18 gennaio riescono a irrompere essi stessi nel luogo del dramma, seguiti in diretta dalla giornalista del Tg5 Anna Maria Guglielmi. E su tutti i teleschermi raggiunge suo malgrado il picco dell’audience il vero burattinaio di Montesecco: l’ispettore della Polizia di Stato Roberto Russo, in teoria il primo degli ostaggi giustiziati. Ma, scrive Jaumann con la sottile ironia che anima il racconto, a Montesecco, a parte un ateo notorio, «la maggior parte degli altri abitanti credevano assolutamente alla resurrezione dei morti».

Prima di essere arrestato con gli altri tre agenti, Russo dichiara di essere stato costretto a partecipare all’operazione Medusa (dal nome dell’essere mitologico che pietrificava i suoi osservatori) ideata dal commosso ministro De Sanctis, rapidamente consolato da due milioni di euro finiti sul suo conto nel Liechtenstein. Minh aveva informato il procuratore Malavoglia di avere scoperto grazie alle sue abilità informatiche i canali di comunicazione tra De Sanctis e i boss mafiosi di Palermo e Agrigento. La squadra di Russo si era fiondata a Montesecco per sequestrare Minh, chiudendolo in una cassa già prima dell’attentato a Malavoglia. Il ragazzo, privato così dell’alibi in modo da dare una parvenza di credibilità alla risibile versione ufficiale, era in attesa dell’esecuzione durante il preventivato assalto dei Nocs per liberare i quattro “ostaggi”, operazione che i media avrebbero spacciato per l’eliminazione del vendicativo brigatista che aveva attirato Malavoglia nella trappola di Montesecco. Minh, nella cui vita si sono intrecciati i fantasmi del passato e i mali del presente, viene liberato dal nonno Matteo. De Sanctis la fa franca calandosi nel ruolo collaudato dell’innocente diffamato dagli avversari politici: gli agenti avevano avuto tutto il tempo di fare sparire dall’hard disk del computer di Minh le prove in grado di inchiodarlo.

Degni esponenti di una comunità nazionale in cui «è più probabile azzeccare sei numeri al lotto che trovare un posto di lavoro senza raccomandazione», nel romanzo fanno una pessima figura anche i giornalisti televisivi, che fino all’ultimo non dubitano mai della verità ufficiale, nemmeno quando, come in questo caso, era fatta apposta per essere messa in dubbio anche dalle menti meno raffinate. Un rapporto problematico, quello degli italiani, non solo con la verità, ma anche con il sesso: sempre oscillante tra cattolicesimo e paganesimo. Come l’arzillo 82enne Benito Sgreccia, che volle trascorrere i suoi ultimi due giorni nella casa del defunto Don Igino, arredandola con nuovi mobili e un invitante letto dal materasso ad acqua, su cui lanciarsi con drei Nutten aus Rom, tre puttane giunte da Roma (i tedeschi non amano le perifrasi): un movimento sexy dopo il quale Benito morì, i mobili furono rivenduti, le puttane riciclate altrove come personale di servizio: un classico. Quasi quanto il ritratto di un Paese con molti hard disk da ripulire perché la legge, come la verità, è adattabile alla prospettiva da cui la si guarda.

Facebooktwitterlinkedin