Danilo Maestosi
Alla galleria Arte Fuori di Roma

Ombre di guerra

Valeria Cademartori racconta (in bianco e nero) la guerra di Aleppo: per essere detto, l’orrore non ha bisogno di abiti sgargianti, solo guizzi di luce ed ombra. Tanto più se gli echi del dolore fanno eco ad altri incubi più profondi e personali

Magari è un tentativo di ribellarsi alla mitologia dell’eterno presente che domina la società dello spettacolo. Magari solo un riverbero d’età. Ma sempre più mi riconosco nello stato d’animo di un viaggiatore al rientro a casa da un luogo lontano, che, troppo breve la visita, non gli è più sconosciuto ma non può dire di conoscere ancora. Non le attese di chi arriva, ma il senso di spaesamento di chi torna e al ritorno, riprendendosi le misure, avverte che qualcosa è cambiato, lo ha cambiato. Ma che cosa? E dove si è verificato il mutamento?
Forse è questa inspiegabile sensazione di instabilità e di mistero la condizione migliore, l’abito mentale più adatto per attraversare i paesaggi che ci sgranano davanti i lavori  con cui Valeria Cademartori, una artista over 40 trapiantata a Roma e innamorata del suo mestiere, partecipa alla seconda puntata della ricognizione sui valori trascurati della pittura avviata da Roberto Gramiccia nella galleria Arte Fuori centro di via Bombelli 22 di Roma.

Il titolo della mostra, Musica ad Aleppo, ci trascina nella Siria devastata dalla guerra civile, evocando una storia vera: un profugo palestinese, oggi rifugiato in Germania, che ogni giorno trascinava su un carretto il suo pianoforte tra i palazzi sventrati dai bombardamenti e improvvisava canzoni e melodie davanti a una folla di sopravvissuti e guerrieri armati. Persino terroristi dell’Isis. Avveniva tre anni fa nello strade di Damasco. Aver spostato la scena in un’altra città, Aleppo, dove la guerra ha prodotto le immagini di distruzione più cieche, crudeli e diffuse, è quasi un avviso: l’arte di questa autrice affonda in una realtà che non insegue nessuna ricerca di realismo.

Valeria Cademartori non è mai stata in Siria. Alla sfida di ostinata poesia di quel pianista ha assistito, solo attraverso un video cliccatissimo che ha trovato una circolazione virale su Youtube, dove ancora si può ritrovare. E ne è rimasta profondamente colpita. Il suo, dunque, è un viaggio di condivisione e testimonianza in differita che si è davvero compiuto soltanto al ritorno – l’arte non paga il biglietto – quando i fantasmi generati da quella visione hanno cominciato a dialogare con i fantasmi che lei si porta appresso, le macerie di quella guerra a specchiarsi nelle rovine e nelle ferite di incubi e sconfitte di un vissuto personale rimosso. E hanno preso corpo nella pittura, seguendone le voci, sposandone la necessità, imponendole nuove regole, senza mutarne la sostanza. Perché questo impulso, questa febbre che accende il sangue, a mio avviso, è il vero segreto che aldilà delle mode, garantisce vita eterna alla pittura. Può rendercela così vicina, un miracolo dell’uomo che ripercorre le strade della Specie, se ci lasciamo andare all’ascolto, ci adattiamo ad abitarla spaesati, come appunto avviene a chi torna da un viaggio, si sente cambiato e prova a dar forma a quel suo – momentaneo o eterno? non importa – perdere forma.

La mostra, dunque. Otto grandi tele, affiancate da altre immagini più piccole su carta. E da un album che ne testimonia la gestazione: ogni quadro ha un suo impianto studiato, anche se poi il passaggio ad altro formato e altri pigmenti è avvenuto – ci spiega l’autrice – quasi di getto. La prima cosa che colpisce è la realtà in bianco e nero e infinite sfumature di grigio che ci assale. La tavolozza di Valeria Cademartori è sempre stata molto asciutta. Qui però questo esercizio a togliere si fa più radicale. Il film della guerra che le scorre davanti e ci scorre davanti rielabora lo sguardo più antico delle vecchie foto, per rubarne la forza: per essere detto l’orrore della guerra non ha bisogno di abiti sgargianti. Solo guizzi di luce ed ombra. Tanto più se gli echi del dolore, della paura cercano cassa di risonanza nella impressionante somiglianza che ridestano con altri incubi più profondi e personali. Ancor più assurda la brutalità dell’uccidere e del distruggere se la misuriamo con il senso del già visto. La conoscenza purtroppo non è un vaccino sufficiente.

La seconda cosa che colpisce è la teatralità che la guerra assume in questi quadri: il combattere ridotto all’essenza letterale di un corpo a corpo. Perché in ognuna di queste visioni in bianco e nero, anche quelle in apparenza più astratte, dietro il groviglio di segni, l’alternarsi e l’addensarsi di luci e ombre, si avverte il movimento o il blocco immagine di un corpo che a volte si divincola, altre volte si accartoccia cercando riparo, altre ancora evapora in una nebbia indistinta. A chiudere come un fondale lo spazio della galleria un quadro, il più grande di tutti, esibisce la trasformazione più inquietante, accentuata dall’incrocio di due assi di appoggio divaricati: un corpo sinuoso di donna che ci punta davanti una coda mutilata di sirena. Sì, tutti corpi femminili: Valeria Cademartori ci obbliga a tenerne conto, è di se che ci sta parlando . Ma è un avviso superfluo, un peccato d’insicurezza, un’auto-rassicurazione che rischia, quando si fa vistosa,  di farla scivolare nella maniera.

Un’ultima considerazione. Un’ultima cosa che colpisce, almeno chi ha già visto altre opere di Valeria Cademartori. Mai come in queste opere l’autrice ha lavorato così tanto sulla pelle della sua pittura, spesso fin troppo levigata. Una cosmesi all’incontrario. Il colore impastato da manciate di sabbia, i pori che si gonfiano, eruttano disagio. E poi inserti materici. Plastica aggettata a rilievo dallo sfondo, innesti di carte che increspano e sfrangiano le pennellate. Urlano sottovoce. Uno scarto di tecnica, che la piega alla necessità del rappresentare e dell’evocare. Perché i quadri migliori – anche in questo è il mistero distintivo della pittura – si dipingono da sé e un autore non deve, non può soffocarne i suggerimenti.

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