Pier Mario Fasanotti
Milano 1848: un libro di Alfio Caruso

L’Italia in 5 giornate

Nell’anno più nero del Risorgimento italiano viene «gettato il seme della riscossa e del progetto unitario» che avrebbe poi guidato l’opera di Cavour. Lo sostiene lo scrittore catanese in “A Milano nasce l’Italia”, racconto minuzioso di un'appassionante pagina di storia…

In cinque piovose giornate i milanesi si trasformarono in guerriglieri, simili ai vietnamiti di circa un secolo dopo. L’Austria asburgica, che dominava il nord-Italia, si rese conto tardi che non bastava aver assicurato sviluppo economico, industriale e tecnologico, benessere ai ceti medio-alti. Ai milanesi e a tanti altri lombardi non bastava. Non si sentivano rispettati come italiani. E si rivoltarono. Misero in grave difficoltà i soldati di Radetzky, frastornati principalmente dalla conformazione della città (che aveva sei porte, tutte aperte) e impediva manovre a cerchio. La rivolta, con barricate, mezzi di fortuna, e straordinario coraggio, abbatté (provvisoriamente) le divisioni sociali.

Le donne poi, con una contessina accanto a una fruttivendola o in un ospedale o a buttar giù pietre dai balconi, offrirono il meglio di sé, con la rete della solidarietà, sangue versato e appoggio incondizionato di quei “fanatici“ con armi vecchie o rubate, o persino sottratte al museo Poldi-Pezzoli. I milanesi avrebbero dovuto disporre di 400 fucili, all’inizio ne ebbero solo 400. Non poche le patriotte che, scese in strada in mezzo a scontri e tafferugli, diedero pugnali a molti giovani assieme all’incitamento «vai e uccidi». Dopo più bassi che alti, Radetzky si ritirò a Verona, ma anni dopo tornò, convinto che la causa della sua disfatta fosse più Vienna che Milano. L’Austria non se la sentì di bombardare a tappeto e distruggere una città-gioiello, assai redditizia.

Questa lunga e tormentata pagina – così importante nella storia risorgimentale italiana a tal punto da offrire schemi ed esempi alla Napoli del 1943 – ce la racconta minuziosamente Alfio Caruso, catanese, autore di numerosi libri storici, thriller e polizieschi, in A Milano nasce l’Italia (Longanesi, 239 pagine, 19,90 euro). L’autore entra nei particolari, anche in quelli sentimentali, dei protagonisti non tralasciando di rimarcare beghe e contrasti tra i vittoriosi. Basta un esempio: il federalista Carlo Cattaneo disse del conte Gabrio Casati, potestà di Milano: «Un ciambellano pronto a farsi in due per servire contemporaneamente la corte di Vienna e quella di Torino». Se si dice Torino si dice Carlo Alberto, il “re tentenna”: atteggiamento che si ritrova spesso nella dinastia savoiarda. A sua Altezza (in senso più di statura che d’altro: era alto, 2,04 metri) pervennero molti appelli dei lombardi, molti dei quali tuttavia temevano che l’erede dei Carignano covasse l’intenzione (confusa come molti suoi pensieri e progetti) di agire solo per gli interessi prettamente piemontesi e non largamente italiani. È vero, obtorto collo aveva firmato una sorta di costituzione, lo Statuto Albertino, ma era recalcitrante nel varcare i confini. Ed era indeciso su qualcosa di altamente simbolico: intrecciare stemma sabaudo e tricolore.

In ogni caso le notizie da Torino – oltre al diplomatico e quindi distante appoggio di Parigi e di Londra – impensierirono Vienna e Radetzky. Il focolaio milanese del 1848 avrebbe potuto dilagare in una fiammata incontrollabile. Negli anni successivi Calo Alberto scese nella pianura padana, dando prova di insipienza militare. Ecco perché il generale Radetzky il 7 agosto torna a Milano, nell’appartamento di via Brisa, «confortato dagli gnocchi di Giuditta». Scriverà alla figlia Friederike: «… dopo aver preso l’offensiva sono giunto felicemente a Milano e ho stabilito il mio quartier generale alla Villa Reale, ho battuto Carlo Alberto in quattro accaniti combattimenti e da ultimo ancora una volta davanti alle porte di Milano ho riconquistato la Lombardia. Io mi interesso alla popolazione che ci ha accolto a braccia aperte. I caporioni sono tutti in fuga e io faccio sequestrare i loro beni a nostro profitto».

Non si limiterà a questi aggiustamenti contabili, ma «perseguirà le famiglie, comminerà infinite condanne a morte, delle quali un migliaio eseguite». E chiederà i danni di guerra. Scrive Caruso: «Non importa se abbiano partecipato o meno alle Cinque giornate, agli occhi di Radetzky (ritratto nell’immagine a sinistra) i milanesi sono colpevoli a prescindere». L’autore del libro realisticamente scrive nell’ultima pagina: «Il 1848 è l’anno più nero del Risorgimento italiano, quello in cui le grandi speranze si capovolgono in tremende disfatte. Però è pure l’anno in cui viene gettato il seme della riscossa e del progetto unitario». Insomma, bastava aspettare meno di vent’anni, e questo grazie a cervelli come quello del conte Benso di Cavour, abile regolatore delle mosse e delle (tante) esitazioni dei Savoia, i quali non esclusero mai le vie di fuga.

Alfio Caruso, all’inizio della sua narrazione, ci pone giustamente un interrogativo storico: come andavano le cose nel Lombardo Veneto amministrato da Vienna? Occorre precisare che il dominio austriaco divenne definitivo solo dal 1748, con il trattato di Aquisgrana. Soprattutto a Milano l’attentissima amministrazione viennese dette ottimi frutti: «Ne hanno tratto giovamento sia lo spirito (i testi del Beccaria e la rivista Il caffè dei fratelli Verri) sia i dané». Si formò una borghesia imprenditoriale che fu poi esempio per l’intero paese. Nel 1774 la Madonnina fu posta in cima al Duomo, nacquero l’Accademia di Brera (1776) e il Teatro alla Scala (1778). L’illuminata Maria Teresa fece molto per Milano e dintorni: i regolamenti delle arti e dei mestieri furono snelliti, barriere e pedaggi aboliti, fu soppressa l’Inquisizione, furono costruite strade e migliorati i collegamenti fluviali, molti canali, tra cui il Naviglio pavese, furono resi navigabili. Le coltivazioni diventarono intensive grazie alle innovazioni tecniche applicate alla semina e agli innesti. Aumentati i contatti finanziari con Parigi e soprattutto con Londra. Le vie milanesi sono state illuminate dalle lampade a petrolio Argand. Sorse la Cassa di Risparmio e di Prudenza (antenata della Cariplo). Spuntarono asili, opere assistenziali, mutue operaie, ospedali (nel ’47 in Lombardia erano 85). La famiglia De Cristoforis ha costruito la famosa Galleria, con questa dedica: “Al commercio, al comodo e al decoro pubblico”. Migliorò l’istruzione pubblica, affiancata da istituti privati. Nel 1839 nacque il Politecnico. Non sono proprio cosette.

E allora perché la rivolta? I milanesi, pur beneficiati da molte innovazioni, non si sentivano italiani, ma solo sudditi. E, soprattutto, chiedevano la cancellazione dei metodi violenti. Unanimemente i meneghini pensavano che fosse «assurdo che Torino potesse primeggiare in Italia sovra Milano». Rivalità destinata a crescere. Un altro particolare, marginale fino a un certo punto. Cambiarono le abitudini alimentari: colazione robusta attorno all’alba, pasto principale alle cinque del pomeriggio così da permettere di assistere al passaggio serale dei cocchi, tutti tirati da due cavalli. Il primo collegamento ferroviario è stato aperto il 17 agosto 1840: le due vetture, Milano e Lombardia, hanno coperto i 15 km di percorso, fino a Monza, in 17 minuti, velocità 46 km all’ora.

Pensiero libero molto limitato, come scriverà l’economista Cesare Correnti. E poi: nessun italiano ai vertici dell’esercito asburgico. Vienna era asfissiante, anche quando consegnò alla città la stazione di Porta Tosa, (l’attuale Porta Vittoria). Curiosità: perché si chiamava Tosa? C’era un bassorilievo medievale raffigurante una donna che si tosa il pelo del pube. Secondo la leggenda raffigurava la moglie del Barbarossa, che aveva raso al suolo Milano. I meneghini non s’accontentavano dei dané e dei servizi pubblici. Volevano essere, almeno un po’, protagonisti. Ecco la miopia (o la paura) dell’aquila asburgica. Di qui il ribellismo, anche simbolico come lo sciopero del fumo, con grande danno per l’erario viennese. Come reagirono gli occupanti? In modo direi infantile: sparsero per la città austriaci in abiti borghesi muniti di sigari fumanti. Alcuni ne esibivano due. Uno di essi entrò in un locale pubblico con la bocca letteralmente piena di sigari. Fu schiaffeggiato, scoppiò una mischia. Peccato che l’avido fumatore-dimostratore si chiamasse Alberto Niepperg, figlio di Maria Luigia, prima donna di Parma (tra le altre cose con fama di donna dai robusti appetiti sessuali). Inevitabile la repressione.

A poco a poco il dissenso dilaga, per diventare insurrezione. Poi i primi morti. Il poeta Vittorio Monti si incaricherà di stilare l’elenco delle milanesi eroine e vittime. Alla fine delle Cinque giornate si calcolano le perdite, con beneficio di inventario. Paiono attendibili questi dati: Radetzky perderà 600 uomini. Milano 409 (in gran parte popolani). Poi ci fu l’esodo degli intellettuali. Non mancarono, dopo, i propositi di inquadrare i lombardi nell’esercito piemontese, integrando la Lombardia nel Regno di Sardegna. A parte l’orgoglio del primato finanziario, commerciale, imprenditoriale e tecnologico dell’intera regione, occorre tener conto dei Savoia. Occorrerà aspettare Cavour e Garibaldi.

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