Raoul Precht
Periscopio (globale)

Classico Julien Gracq

Torna in libreria Julien Gracq, uno degli autori più appartati del Novecento francese: lontano sia dal nouveau roman sia dall'esistenzialismo, finì per essere uno scrittore "saccheggiato” da tutti

Negli anni ’40 e ’50 del Novecento, uno scrittore francese poteva scegliere in sostanza se aderire all’esistenzialismo di stampo sartriano o al nouveau roman, con la sua predilezione per la vita degli oggetti anziché delle persone. Una terza via non era prevista. Se per reazione alla prima gli esponenti della seconda scuola – da Nathalie Sarraute a Claude Simon ad Alain Robbe-Grillet – sembravano inseguire l’idea di una scrittura quanto più possibile pura e autosufficiente, avulsa da qualunque compromissione con la politica e la società, ecco che altri scrittori a loro contemporanei ne rifiutano la poetica ma non – o almeno non integralmente – l’idea di scrittura che li innerva. È il caso certamente di un outsider come Julien Gracq, di cui qualche mese fa è stato pubblicato per la terza volta in Italia quello che è considerato il suo capolavoro, La riva delle Sirti. Per la terza volta: il romanzo era uscito infatti da Mondadori nel 1952, per i tipi di Guida nel 1990, e viene ora meritoriamente riproposto da L’Orma, in un’edizione molto ben curata, ma in cui non manca purtroppo qualche refuso: a mo’ d’esempio già nella prima pagina (p. 7) è scomparso un “è” nella penultima riga che rende la frase, già di per sé complessa, incomprensibile; a p. 101 si legge “la luce d’un lampada notturna”, a p. 332, nella nota finale, il titolo dovrebbe essere Le rivage des (e non de) Syrtes. Ed esce ancora una volta, il romanzo di Gracq, sempre nella stessa traduzione degli anni Cinquanta, quella di Mario Bonfantini, che può essere letta, pur nella sua fedeltà, quasi come un’opera letteraria a sé stante.

(Breve parentesi su Mario Bonfantini, che meriterebbe ben altro: professore di letteratura francese, grande esperto di Stendhal e Baudelaire, ma anche scrittore e sceneggiatore, oltre a opere dei citati e al romanzo di Gracq traduce la Chanson de Roland, il Gargantua, I fiori del male e I Guermantes. Giusto per ricordarne qui la figura e dare un’idea rapida della sua statura di studioso.)

Se riproporre un testo del genere, sicuramente estraneo alle mode e di difficile commercializzazione, è di per sé meritorio, come dicevo, soprattutto per una casa editrice giovane e relativamente piccola, bisogna anche chiedersi cosa questo testo e questo autore possono ancora comunicarci, in che modo possiamo cioè inserirli in una discussione attuale sulle modalità narrative possibili ed esplorabili. Qui il discorso si fa più sfumato e complesso e passa attraverso l’analisi della figura di Gracq. Cominciamo dalla formazione e dalle predilezioni letterarie. Anzitutto, Gracq è sicuramente figlio del XIX° secolo, degli adorati Chateaubriand, Balzac, Barbey d’Aurevilly, Stendhal, senza però dimenticare il quasi compaesano Jules Verne, nella figura del quale si esalta l’altra sua passione, quella per la geografia, che studia e insegna per gran parte della sua vita. Fatta salva l’influenza modernista dei surrealisti – difenderà a spada tratta l’amico Breton contro Blanchot, Bataille, il detestato Sartre e l’intero PCF –, non si può dire che Gracq ami il Novecento; tutt’al più, qualche influenza gliene verrà per il tramite di scrittori di altre letterature, ma a lui affini, come Jünger. Quanto al nouveau roman, per lui è una letteratura meccanica e senz’anima, ed è certissimo che passerà di moda in breve tempo; quando questo non accade, ma anzi sembra istituzionalizzarsi, agli occhi di Gracq prende gradualmente il ruolo di modello negativo che era spettato in precedenza all’esistenzialismo. Per lui il romanzo è una “creazione parassitaria” che digerisce le influenze esterne e deve attuarsi nella libertà più assoluta; non c’è spazio per tecniche “esclusive” come quelle propugnate dal nouveau roman. Ma se i punti di contatto con quest’ultimo, inteso come scuola di tecnica narrativa, sono pochi, molto più numerosi appaiono oggi, a una lettura attenta e imparziale, quelli con singoli autori come Claude Simon; non a caso, uno studioso attento dell’opera di Gracq qual è Dominique Viart rileva come in Un balcon en forêt, l’ultima delle sue opere narrative, il trattamento dei personaggi e della trama lo avvicina molto almeno a Simon, a Butor e a Nathalie Sarraute.

Considerata la forte autoreferenzialità nella sua scrittura, neanche Gracq si sarebbe forse immaginato di essere considerato post mortem come l’ultimo dei classici, l’estremo nesso con la grande tradizione letteraria francese. Per limitarci a pochi giudizi, Patrick Modiano parla di una “sensibilità da agopuntore”, Michel Tournier ne magnifica le doti da “paesaggista”, mentre Pierre Michon osserva che in tutte le belle prose della sua generazione non ve n’è una dove non ci sia il memento di un’espressione o di un modo di dire di Gracq, e che quest’ultimo è dunque uno degli scrittori più saccheggiati di Francia. Caso più unico che raro, le sue opere vengono pubblicate nella Bibliothèque de la Pléiade quando è ancora in vita; e nessuno potrà negargli il riconoscimento di un’estrema coerenza nelle scelte e nell’adesione a un ideale assoluto di letteratura, al quale si manterrà fedele per tutta la vita. Il caso Gracq nasce in effetti nel 1950, dopo la pubblicazione non troppo coronata da successo dei primi romanzi, Au château d’Argol (1938) et Un beau ténébreux (1945), per i quali la critica gli rimprovera un esercizio di stile un po’ troppo pretenzioso. Gracq risponde pubblicando La littérature à l’estomac, tradotto in Italia con il titolo La letteratura senza vergogna, pamphlet di attacco alla critica in cui vengono denunciate le procedure dell’editoria e della promozione della letteratura; segue subito dopo, nel 1951, il Rivage des Syrtes, che quasi per dispetto ottiene il premio Goncourt; per un ulteriore dispetto, quasi un fallo di reazione, e come preannunciato ad absurdum nel pamphlet stesso, Gracq lo rifiuta clamorosamente, anticipando anche in questo il gesto dell’antagonista Sartre in occasione del conferimento del Nobel. Sempre per coerenza, lungo tutta la sua carriera letteraria Gracq si sottrarrà a ogni premio, ai passaggi in radio e televisione, all’arruolamento nell’Accademia, alla pubblicazione nei “livres de poche”, perfino ai reiterati inviti di Mitterrand a cenare all’Eliseo.

Il Rivage farà molto parlare di sé: intanto per l’argomento, che sembra copiato dal Deserto dei Tartari di Buzzati, uscito anche in Francia qualche anno prima. Gracq si difenderà sostenendo che il modello del suo libro va cercato non in Buzzati, con il quale non c’è alcuna analogia stilistica, ma semmai nel Puškin della Figlia del capitano: e in effetti col senno di poi un certo parallelismo nel rapporto fra Pëtr Andréevič Grinëv e Maša, da un lato, e Aldo e Vanessa, dall’altro, può essere senz’altro rilevato. Le fonti d’ispirazione hanno peraltro un’importanza relativa: quello che contraddistingue davvero il romanzo di Gracq sono la lingua utilizzata e la tecnica narrativa nonché la qualità dell’evocazione. Il Rivage è stato qualificato acutamente da Antoine Blondin come un “imprécis d’histoire et géographie à l’usage des civilisations rêveuses”, laddove è evidente il gioco di parole con précis (che in francese vuol dire preciso, ma anche manuale scolastico) e l’allusione al mestiere primo di Gracq, l’insegnamento nelle scuole. Peraltro, boutades a parte, Gracq riconoscerà sempre l’influenza della geografia sulla sua immaginazione; si dirà sensibile alle “regioni indecise”, come le chiama lui stesso in un’intervista, ovvero a quei territori che non sono né costieri né montuosi, che si presentano come un luogo indistinto dove per vedere qualcosa è necessario ingegnarsi e aguzzare lo sguardo.

Se come in Buzzati il libro rappresenta l’evocazione di una civiltà votata all’attesa interminabile, al fallimento e alla scomparsa, con la descrizione di una lentissima agonia che vale quale metafora generale della vita umana, va anche ricordato che tutte le opere di Gracq si situano in una scenografia sempre uguale, un territorio di frontiera vago e indistinto, abitato da personaggi almeno momentaneamente incerti e perfino sconcertati. Non è forse un caso che l’emblema dello Stato che qui chiama Orsenna sia la bandiera di san Giuda. Gracq è autore di una letteratura metafisica e certosina, o, come scrive in uno dei frammenti – genere che sostituirà gradualmente il romanzo nell’ultima fase della sua produzione – di una letteratura scritta, come la musica, per due mani, dove la linea o melodia verbale si appoggia a un basso continuo che ricorda la presenza sullo sfondo di tutta la letteratura già scritta in precedenza. In questo contesto lo svolgersi della peraltro scarsa azione ha poca rilevanza: quanto più il testo si avvicina alla conclusione, anzi, tanto più Gracq, che procede scrivendo senza un piano prestabilito, entra in crisi e teme di non farcela, anche perché a ogni svolta ciascuno dei suoi libri traccia un percorso che ne esclude altri, altrettanto possibili, proprio come delle sliding doors; quel che però colpisce in Gracq è come, a queste possibilità da lui stesso rigettate, egli sembri voler sempre riconoscere una valenza nel testo che sta dipanando. L’arte, scrive in un altro frammento, non mente, ma è garante della natura autentica e perpetuamente transitiva della realtà. E naturalmente colpisce il lettore anche l’eccesso di metaforizzazione, il piacere maniacale di inanellare immagini o similitudini che spesso rischiano di far perdere il filo al lettore, come nell’esempio che segue: “Poi, con la guerra, la vita aveva cominciato ad abbandonarla, e Maremma era ormai una città morta, una mano rinchiusa, raggricciata sui suoi ricordi, rugosa e corrotta come la mano di un lebbroso, alterata dalle pustole e dalle croste dei suoi magazzini crollati e dalle sue cale divorate dalle gramigne e dalle ortiche.”

O ancora: “Fin da quando, durante le mie esplorazioni in quel dedalo di cortili e casematte, io mi ero trovato ad aprirne per semplice curiosità la porta, mi ero sentito progressivamente invadere da un sentimento che non saprei definire se non dicendo che era di quelli che disorientano (così come pare si svii l’ago della bussola attraversando certe steppe disperatamente banali del centro della Siberia) quell’invisibile ago calamitato che abitualmente ci trattiene dal deviare dal filo normale della nostra esistenza: di quei sentimenti che, senza la minima giustificazione logica, ci designano un luogo attirante, un luogo dove ci sentiamo senz’altro disposti a trattenerci.”

Tutta questa complessità può costituire una debolezza stilistica, anziché una forza, al pari delle sottolineature insistite, dei dialoghi poco credibili e banali, con il loro tono a volte persino declamatorio, in forte contrasto con l’eleganza delle descrizioni. Si è detto che in Gracq, nella lentezza e apparente incertezza del suo procedere, c’è un certo gusto non per la noia in quanto tale, ma per la sua messa in scena.

Neanche Gracq sfugge al catalogo degli scrittori atipici (o scrittori del no) redatto da Enrique Vila Matas nel suo Bartleby e compagnia. Vila-Matas gli dedica anzi un capitolo in cui racconta di una sua visita all’ormai anziano scrittore – morto nel 2007, a 97 anni – nel buen retiro di Saint-Florent-le-Vieil, dove questi viveva con l’anziana sorella e da dove sorvegliava con accanimento le acque della Loira, in un soliloquio orale e scritto che gli permetteva di non essere disturbato e d’isolarsi dal mondo, nella piena e fiera rivendicazione della sua ascendenza controrivoluzionaria e vandeana. È questa l’immagine forse più veritiera che di lui ci rimane: quella di uno scrittore troppo fiero per scendere a compromessi con i tempi e di un’opera in cui anche errori e manchevolezze hanno una loro sofferta grandezza.

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