Chiara Ragosta
Al Teatro Sala Uno di Roma

Parto spettacolare

Eva Gaudenzi ha scritto e interpretato in scena il passaggio da femmina a madre: un monologo emozionante che parte dal desiderio di maternità e termina con la definitiva apertura al futuro

C’è una frase, tratta da un libro di Julian Barnes, che tradotta suona così: «La nostra vita non è la nostra vita, ma solo la storia che ne abbiamo raccontato». Il libro si intitola: Il senso di una fine. Solitamente, è nel momento in cui si conclude una storia che se ne percepisce realmente l’essenza. Ed è per questo che, per parlare di Parto (al Teatro Studio Uno di Roma) bisogna (quasi paradossalmente) iniziare dal finale, più precisamente da un brano dei Sigur Ros: Sæglópur, “perso nel mare”, con quel suo oscuro fondo di chitarre elettriche fa riferimento a quella sensazione di smarrimento ancestrale che si prova di fronte a quell’immensa distesa d’acqua, infinita, sconosciuta. Eppure essa cela in sé una melodia nota, un pianoforte dolce e rassicurante che nasconde un segreto mai del tutto svelato ed invita ad una continua scoperta. Lo stesso mare in cui si tuffa, tra paura e attrazione, tra stupore e ansie la protagonista Eva Gaudenzi (qui nel ruolo anche di autrice e regista) dopo aver compreso che inaspettatamente, contro quello stesso destino che la voleva infertile, è rimasta incinta.

In questa vita iper-programmata e organizzata fino allo stremo, è quella piccola dose di imprevedibilità che rende tutto più affascinante. Inizia così il suo viaggio nel mare della gravidanza, raccontando al pubblico la sua personale esperienza non ammantandola di crudo realismo, ma amplificandola fino a teatralizzarla, giocando fra le onde dei suoi ricordi e riempiendo la piccola sala romana con il suo mondo di giovane partoriente e i personaggi che lo hanno popolato: dal marito all’ostetrica ayurvedica, passando per l’infermiere novello Caronte che accompagna una Eva-Dante con le doglie in sala travaglio, tra i corridoi di un ospedale simile ad una bolgia infernale. A condividere con lei lo spazio, le suggestive musiche scelte o rielaborate da Stefano Switala.

Niente di eccessivo o di retorico serve per trasmettere, nel suo emozionante monologo, ciò che è stato il vissuto, l’attesa, il travaglio per l’attrice, la quale con semplicità, ironia, spontaneità prende lo spettatore per mano e lo conduce con lei sulla sua nave che oscilla fra attesa e desiderio, fino alla tempesta del parto (che di per sé non è un atto piacevole), il momento in cui la donna mette corpo, tempo, spazio ed emozioni nelle mani del puro e straordinario caso. E infine si arriva oltre la burrasca, all’apparente calma che ne segue. Ed è l’ultimo sguardo leggermente velato, eccitato e splendidamente carico di sottile felicità di Eva, il quale va oltre il muro del pubblico e mira all’orizzonte, che si racchiude la drammatica bellezza di quanto appena visto e ascoltato: occhi di colei che come tante è stata femmina un giorno e poi sarà madre per sempre, i quali scrutano il confine incerto fra terra e mare. Occhi di chi sa che «la vita non torna indietro e non può fermarsi a ieri» (Kahlil Gibran).

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Le fotografie sono di Adele Talarico

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