Danilo Maestosi
Dietro le politiche per l'arte

La fine del museo

Le avventure (e le sventure) parallele di due istituzioni culturali romane, il Maxxi e il Macro, rivelano strategie nazionali e locali convergenti: trasformare il museo in qualcosa che fa spettacolo e non "conserva"

Macro e MAXXI. Una parte del futuro di Roma doveva essere incorniciato tra questi due nomi. Sono gli acronimi di due musei consacrati al contemporaneo; uno comunale in un ex birreria dietro piazza Fiume, tradotto in una cifra di descrizione più sobria; l’altro statale in un ex caserma del Flaminio, scolpito da una sigla più ambiziosa che estende l’oggi a un intero secolo. I musei sono stati concepiti quasi contemporaneamente, figli di una stagione di vacche grasse in cui si pensava che l’effimero avrebbe generato palazzi, sedi accoglienti della creatività e del sapere. Anche se poi il Macro ha tagliato il traguardo dell’apertura otto anni prima, nel 2002, e il Maxxi solo nel 2010. Sono due oggetti firmati: il primo, più piccolo, rimodellato senza fronzoli da un’architetta francese, Odile Decq; il secondo di scala più ampia ridisegnato come uno svincolo d’autostrada dall’archistar angloirachena Zaha Hadid. Due architetture da capitale moderna, destinate nelle intenzioni a colmare il divario rispetto ad altre metropoli europee meno ancorate di Roma all’inerzia del proprio passato, più attrezzate a seguire i nuovi corsi dell’arte. Investimenti necessari. Ma macchine molto costose: lo si è scoperto con la crisi e il precipitare della politica nella gestione del giorno per giorno. Ed era ormai troppo tardi.

A farne le spese è stato soprattutto il Macro, inghiottito in un vuoto senza fine di fondi e di idee, un susseguirsi di direttori e reggenti sempre più privi di potere, di strategie col fiato corto, di gestioni di pura sopravvivenza , di sponsor e sostenitori in fuga che ne hanno eroso presenza, identità e autonomia.

L’ultimo colpo lo ha inferto Luca Bergamo, vicesindaco della giunta grillina, un passato da organizzatore di eventi spettacolari ed esperienze da consulente scientifico che gli stanno dettando, senza alcuna verifica sul campo, le linee della sua politica espositiva: la scienza e la tecnologia come leitmotiv cui consacrare gran parte del cartellone, il brusio del movimento e delle voci di territorio preferito all’attenzione per le istituzioni consolidate e i filoni che caratterizzano la vita culturale cittadina. Il risultato è la rinuncia alle Scuderie del Quirinale, il contenitore più prestigioso del Comune, che il ministro Franceschini gli ha scippato. E la rinuncia a investire sul rilancio del Macro. Persa ogni autonomia, e perso ogni controllo della succursale per vitalioli e nottambuli di Testaccio, che ora l’assessore governerà direttamente; il padiglione di via Guido Reni dato in affidamento al Palazzo delle Esposizioni, a sua volta sprofondato in un nebbioso declino. Il Macro à stato consegnato alla cabina di regia di un personaggio anomalo come Giorgio De Finis, che da ottobre lo dirigerà, facendo tesoro dell’esperienza vincente del Museo dell’altrove sulla Prenestina, un ex fabbrica occupata, trasformata in un ammirato scrigno di opere d’arte di autori consacrati e altri in transito pescati dalla strada.

Il progetto di De Finis è un work in progress in gestazione sul quale è giusto sospendere il giudizio. Che fine faranno le opere in collezione? De Finis pensa di metterle in mostra in una grande sala, una sull’altra come in una quadreria barocca. Perché? Sarà poi davvero cosi? Come saranno scelti gli artisti che il curatore pensa di coinvolgere? All’inizio si parlava di un accoglienza senza filtri. Ora si pensa a una serie di inviti e collaborazioni a tema, magari in comune o a gruppi. E a una selezione che coinvolgerà solo i più idonei. Come saranno impiegate le sale? De Finis non punta a organizzare mostre ma di usare gli spazi come case o condomini. Si è attentamente valutata la delicatezza di un’architettura d’autore concepita per altri fini e comunque da preservare? L’unica cosa che sembra indubbia è la fine dell’avventura del Macro come museo: i musei come li abbiamo pensati in passato sono morti, vanno reinventati, teorizza De Finis.

La strada delle avanguardie, in arte come in filosofia, è costellata da queste profezie, più che presagi vere e proprie sentenze di condanne capitali, pietre miliari dell’epoca che cambia o della voglia di cambiarla. Esecuzioni che per assumere solennità ed essere mostrate ad esempio hanno poi bisogno di esibirsi in santuari speciali e ufficiali: i musei appunto. Perché per conservare e rileggere la memoria i musei continuano ad essere indispensabili. Tanto più preziosi ora, come ultime trincee di resistenza ad una società come quella di oggi schiava di un eterno presente, la memoria assegnata ai grandi network come registro di desideri e vocazioni al consumo. Togliere al Macro una continuità di museo, sia pure per un esperimento di due anni, sollevandolo dai suoi compiti istituzionali di immagazzinare, selezionare e preservare memoria, è dunque un vistoso errore di rassegnazione e d’arretramento. E un controsenso, perché è proprio la sua aura di museo che rafforza l’intenzione di De Finis e degli artisti che chiamerà all’impresa, di espugnare il Macro, facendone il simulacro di una rivoluzione simulata, una sorta di palazzo d’inverno.

Al Maxxi è andata a conti fatti molto meglio. Superate le incertezze dei primi due anni d’avvio, il museo di via Guido Reni ha incamerato i benefici di una continuità di gestione, sotto la cabina di regia di Giovanna Melandri e con uno statuto che gli assicura una sufficiente autonomia. Alle spalle un ministro come Dario Franceschini, che, sia pure con idee piuttosto confuse ed equilibrismi clientelari, ha sposato la causa dell’arte contemporanea e ne ha fatto un volano della sua politica. Non sorprende dunque la decisione del ministro di riconfermare per altri cinque anni Giovanna Melandri e il consiglio d’amministrazione che l’affianca, dove è entrato con un suo rappresentante anche l’Enel, abbandonando al suo destino il Macro, che aveva battezzato con la sua sigla il “salone più grande”. E non sorprende il bilancio del suo primo quinquennio di direzione presentato da Giovanna Melandri con una raffica di dati tutti in aumento. Raddoppiato il budget a disposizione: da 7 a 14 milioni. Aumentato il numero degli sponsor e dei contributi privati, che ora coprono il 40 per cento della programmazione. Nel calcolo dei costi le spese per il funzionamento della macchina prima al settanta per cento ora uguagliano gli investimenti sulle attività. Triplicato il numero di eventi: migliaia di appuntamenti e 148 mostre dal 2012 ad oggi. Aumentati i visitatori, anche grazie all’introduzione delle visite gratuite dal martedì al venerdì alle opere in collezione: 432 mila persone nell’ultimo anno. Il guaio è però che solo un terzo ha pagato il biglietto: 120 mila i paganti. Non è un dato d’alta classifica per l’Italia, meno che mai in Europa e in Occidente. E può diventare un problema in un paese e per una classe politica come la nostra che tengono in gran conto le cifre di presenze ed incassi. Un cambio di governo e il futuro del Maxxi può andare a farsi benedire.

Centoventimila visitatori: è la conferma di quanto la platea del contemporaneo a Roma sia relativamente esigua, deboli i richiami per il grosso pubblico, per i tanti pubblici da alfabetizzare e poi stabilizzare sui quali il museo sta giustamente concentrando la sua azione, ma che non è ancora, evidentemente, riuscito in pieno a coinvolgere. Bene muoversi in tutte le direzioni. Cercare ed offrire sponde a cinema, moda, teatro, letteratura, mondanità, scuole. Bene puntare sulle collezioni, ed aprirle gratuitamente alle visite nei giorni feriali: ma la raccolta del Maxxi, non oltre 500 pezzi, pur offrendo opere di valore è ancora piuttosto esigua ed insufficiente a disegnare un panorama completo dell’arte di oggi. Giusta l’idea di ritagliarsi uno spazio e una propria identità, esplorando l’offerta di paesi emergenti più che quella delle piazze regine del mercato d’Occidente: ma non tutte le collettive sono poi di assoluta qualità, e la rinuncia alle grandi firme andrebbe probabilmente più dosata. La sensazione è che per imprimere al Maxxi una sferzata di vitalità la direzione del museo dovrebbe analizzare con più attenzione e spirito critico sia domanda sia offerta. E osare di più, diventare un crocevia di polemiche e conflitti, più che un salotto ben arredato.

Non sembra questo però l’obiettivo immediato della programmazione del nuovo anno, improntata a una linea di forte continuità. Centinaia di eventi collaterali, in gran parte a partecipazione gratuita, e solo dieci mostre, che trascurano più o meno tutte la calamita a effetto sicuro delle grandi firme. L’attenzione è concentrata soprattutto su rassegne collettive a tema, destinate ad esplorare e rappresentare in particolare i fermenti e gli esperimenti che vengono da paesi coinvolti dalla globalizzazione ma trascurati dal mercato che conta. Quattro gli appuntamenti principali. Si parte a febbraio con un duo di creativi portoricani, Jennifer Allora e Guillermo Calzadilla, che usando vari linguaggi documentano la crisi del loro paese, dall’economia agli sconquassi climatici. Si prosegue a giugno chiamando alla ribalta l’Africa: quaranta artisti invitati a concentrarsi sul volto delle rispettive comunità disegnato dalle grandi concentrazioni urbane. A ottobre una stimolante puntata, intitolata Low Form, sui punti di contatto e di conflitto tra arte e intelligenza artificiale. A dicembre la proposta forse più intrigante, dedicata alla strada come laboratorio di convivenza e nuova creatività. Tra gli autori invitati scarso il peso riservato alla steeet-art, oggi sempre più gettonata, alla quale i curatori del museo stentano a prendere le misure.

Per la fotografia si punta su un noto fotoreporter italiano, Paolo Pellegrin, trent’anni di carriera e di scatti sui fronti di guerra di tutto il mondo. Tra le proposte della direzione architettura spicca l’omaggio a Bruno Zevi, uno dei più innovatori teorici del trapasso dal modernismo al postmoderno. E infine due novità in trasferta. La creazione entro fine anno di una succursale del Maxxi a l’Aquila. E un singolare faccia a faccia sul tema del ritratto tra le opere in collezione e i capolavori seicenteschi di palazzo Barberini.

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