Paolo Bonari
Di aria elettorale

Il Pd senza giovani

Il radicalismo delle élite ha prodotto una disaffezione strutturale nei confronti delle politiche riformiste. I social, così intimamente populisti, hanno il fatto il resto. E il Pd si è trovato improvvisamente invecchiato

Tutto spinge a credere che il 4 marzo la situazione non sia destinata a ribaltarsi, che cioè il Partito Democratico continuerà a riscuotere una percentuale magrissima di consensi presso i più giovani: che cosa, infatti, potrebbe o dovrebbe modificare l’orientamento del loro voto? Quali sono state le mosse di Renzi per ovviare a quello che sembra ormai un problema strutturale del partito? Ma, soprattutto: è davvero possibile, a questo punto, produrre una consistente inversione di tendenza? Una generazione data per persa, e il PD rassegnato a essere il partito degli anziani: piuttosto paradossale, per una classe dirigente che si era presentata come quella della rottamazione, in virtù sia dell’età del proprio leader che di una proposta politica radicalmente rinnovata.

In realtà, i problemi sono stati evidenti fin da subito: nessuna luna di miele tra Renzi e i giovani, diversamente da ciò che è successo con i settori più maturi dell’elettorato, forse stufi di un cambiamento di cultura politica che era stato rimandato per troppo tempo. Si trattava, infatti, di vecchi militanti dei Democratici di Sinistra e del Partito Democratico della Sinistra, quando non dello stesso Partito Comunista Italiano, che avevano visto succedersi, nel corso di innumerevoli convegni e congressi, le promesse di una Bad Godesberg italiana, vale a dire della replica nostrana del profondo mutamento che interessò la socialdemocrazia tedesca quasi sessant’anni fa e che consisteva nel ripudio dell’ideologia marxista e nella piena accettazione del modo di produzione capitalistico.

Oggi, in alcuni settori lavorativi (o para-lavorativi), negli ambienti culturali ed editoriali, nelle redazioni dei mezzi d’informazione e nelle professioni ad alto tasso di creatività, è diffusa e dominante una generica opposizione al PD, portata avanti da una generazione estesa oltre i semplici confini anagrafici: trenta-quaranta-cinquantenni iper-scolarizzati e provenienti da famiglie progressiste che sono cresciuti con l’immagine di un partito che aveva tradito i valori della sinistra ed era incline ai compromessi più vili, secondo quanto veniva propagandato dagli editorialisti più influenti e dagli opinionisti dei talk show più frequentati.

A coronare il tutto, a partire da quell’infausto giugno del 1984 in cui trovò la morte il Segretario più amato del PCI, la diffusione di una mitografia berlingueriana che è diventata una vera e propria mistica, un dito puntato contro la contemporaneità politica, un eterno atto d’accusa contro le classi dirigenti che, a seguire, avrebbero via via rovinato e sperperato il patrimonio ideale di cui Berlinguer è stato l’ultimo e il più nobile difensore, fino all’estremo auto-sacrificio in un’Italia che si stava facendo sempre più volgare, disimpegnata e superficiale. Un’icona, la sua, condivisa non soltanto da chi, nel corso di tutti questi decenni, ha criticato da sinistra le numerose incarnazioni del partito post-comunista, ma anche dal MoVimento 5 Stelle, che ha inserito Berlinguer nel proprio pantheon, naturalmente in funzione anti-PD: basti sentire le ovazioni che vengono tributate al suo nome, in occasione di certe manifestazioni di piazza, o la frequenza delle sue citazioni negli interventi di Alessandro Di Battista, l’esponente pentastellato che più sa rivolgersi a quel vasto (e vago) popolo della sinistra nostalgica e delusa. Infine: basterà mettere assieme la “questione morale” di berlingueriana memoria e il Vaffa-Day e ciò che ne verrà fuori sarà una buona approssimazione del M5S, cioè di un movimento che ha mosso i primi passi nelle sezioni dei Democratici di Sinistra e la cui incubazione risale al tempo dei girotondi anti-berlusconiani e nannimorettiani.

“Bufera social contro il PD”: quante volte è capitato di leggere questo titolo? Sembra quasi che l’avversario principale di quel partito sia quella vasta rete di opinionisti da social che perlopiù appartengono a una classe sociale media e mediamente agiata di “lavoratori della conoscenza”, e i magri numeri stanno a confermarlo: il Partito Democratico, su Facebook, può contare su 230.000 followers, riuscendo sì a sorpassare Forza Italia ma non Lega – Salvini Premier, venendo surclassato dal MoVimento 5 Stelle (oltre il milione) e addirittura scavalcato da CasaPound Italia e da Forza Nuova, sebbene di poche unità. A livello dei leader, le cose vanno un po’ meglio, ma non troppo: Renzi sta oltre il milione di followers, così come Berlusconi e Di Maio, ma a quest’ultimo si potrebbero sommare i seguaci di Grillo, che sono quasi due milioni, tanti quanti quelli di Matteo Salvini.

Insomma, sembra che, da una parte, l’utente medio di sinistra che si esprime sui social sia generalmente molto critico nei confronti del PD e in particolare della sua leadership, affidata a quello che per molti continua a essere l’intruso in una storia gloriosa, e che, dall’altra, il partito incontri un’enorme difficoltà a comunicare sé stesso in un terreno che è molto più adatto per gli estremisti dei fronti opposti: è anche per questo, forse, che restano in piedi pagine molto discusse come “Matteo Renzi News”, pagina non ufficiale ma molto aggiornata che ha creato parecchi grattacapi, improntata a slogan ben più populistici di quelli utilizzati dal partito, ma che potrebbe rivelarsi utile per conquistare una fetta d’elettorato meno acculturato e più sensibile a certi toni.

Se, però, per una volta provassimo a ribaltare la visuale cui siamo abituati, smettendo di addossare alla classe politica la responsabilità della disaffezione e della disillusione che regnano in certi ambienti? Ci accorgeremmo che la questione si compone di variabili impreviste e taciute: la classe sociale (e non generazionale) che più sembra detestare il PD non è di certo quella che necessita di maggior sostegno e non è con essa, probabilmente, che un partito di sinistra deve rapportarsi, per riconquistare un po’ di presa sull’elettorato più debole. Il radicalismo delle élite non è questione di oggi, ma riguarda la storia del secolo scorso, risale a quando ancora i partiti comunisti riuscivano a intercettare anche il voto d’opinione, dall’alto di una potenza oggettiva e internazionale: allo stato delle cose, un’offerta politica che si è diversificata e laicizzata fa sì che le alternative siano tante e possano contare sull’ausilio delle più efficaci grancasse mediatiche. Perciò, va bene evocare la questione giovanile, ma (un po’ marxisticamente) sarà meglio ripetere che le vicende di classe contano più di quelle anagrafiche e che risulta più urgente dare un’occhiata a ciò che sta succedendo nei dintorni delle città: alle periferie, cioè, anch’esse popolate di tanti giovani che non sono esattamente “lavoratori della conoscenza”.

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