Pier Mario Fasanotti
In margine alla carneficina in Florida

Guantanamo dell’anima

Oltre alle politiche sulle armi, a chi attribuire le responsabilità per l’ennesima strage che si è consumata in America? E soprattutto, come prevenire le cause, come intervenire sui disagi connessi a questi terribili gesti? Un libro di Umberto Galimberti, “La parola ai giovani”, esplora le nuove frontiere del nichilismo

Nell’immenso Paese delle armi è inevitabile affidare ai proiettili (in continuo crescendo) le emozioni più “nere”: senso di esclusione, frantumazione dell’identità, disagio sociale. Il presidente Trump continua nella sua nenia da cow-boy: «America first». Prima l’America, insomma. E a qualsiasi costo. Il giorno di San Valentino, quindi poche ore fa, il diciannovenne Nikolas Cruz torna nella high school dalla quale era stato espulso “per motivi disciplinari”. Al braccio ha un fucile da combattimento AR-15, micidiale. Spara all’impazzata, toglie la vita a 17 persone (non solo coetanei) e scappa. Sarà ritrovato e ammanettato. È così insipiente il commento del presidente dal ciuffo biondo che non vale la pena riportarlo, alieno come è il Big Gim della politica mondiale, a porsi delle domande radicali. Come questa: perché questa nazione si ammala? Perché dilaga una sorta di peste violenta i cui bubboni nascono e si diffondono come l’acne adolescenziale?

Non è da meno il governatore della Florida: «Questo è male puro». C’è da immaginare che questa affermazione sia uscita da qualche chiesetta densa più di rancore che non di misericordia targata papa Francesco. Non osiamo nemmeno ipotizzare un riferimento a Nietzsche. Filosofo che l’America ignorante forse identifica con un foreign fighter dell’Isis. Esilarante, in questo quadro lugubre, è l’aggiunta che si è sentito, “moralmente e sociologicamente” di fare: «Nessuno dovrebbe mai sentirsi sicuro a scuola». Ma guarda un po’. È la più desolante presa d’atto di una realtà che pare non abbia anticorpi.

Be’, qualcuno c’è. E se non fossimo dinanzi a un lutto sociale, varrebbe la pena raccontarlo. L’ha fatto un preside inventivo: ha insegnato agli studenti come ripararsi, magari nascondendosi negli armadi, da assalti come quello accaduto in Florida. Dall’inizio del 2018 ci sono state ben 20 sparatorie in edifici scolastici.

Più di una volta lo psichiatra e docente universitario Umberto Galimberti ha esaminato il concetto di nichilismo, applicandolo al comportamento giovanile. Lo ribadisce, mettendo insieme moltissime testimonianze, nel suo recentissimo libro La parola ai giovani (Feltrinelli, 323 pag. 16,50 euro). Galimberti, che è anche psicoanalista e autore di numerosi libri, torna con preoccupata insistenza alle «crisi psicologiche a sfondo esistenziale che caratterizzano l’adolescenza e la giovinezza». Una specie di cultura del negativo che sciacqua via dalla pelle dei ragazzi tutta una serie di promesse che animavano il mondo dei padri. Galimberti scrive di «condizione culturale depressiva». E ancora: «…l’individuo è vittima di una diffusa mancanza di prospettive e di progetti, quando non di sensi e di legami affettivi, inutile è il ricorso a terapie farmacologiche che curano le sofferenze che originano dall’individuo, perché il male è fuori, è nell’ambiente culturale in cui ci si trova a vivere, in quel deserto dell’insensatezza in cui niente si profila all’orizzonte, niente motiva o sollecita, niente atttrae o affascina, niente che faccia uscire da quell’assoluto presente che i giovani vivono con la massima intensità…». Siamo al «deserto di senso».

Altro che american dream! Ricordate? Gli americani (ma non certo i nativi, che furono massacrati) hanno sempre avuto la bocca piena di “nuova frontiera”. Ecco, oggi il concetto si è in qualche modo rovesciato. Frontiera, intesa come futuro migliore, come speranza che muove l’intera società, si è ribaltata in muri, espulsioni, dinieghi, umiliazioni, panacea del denaro. Lo sparatore della Florida, che ha agito mosso da problemi psichici (grossi, pure, se valgono certe avvisaglie nella sua personalità) e da un’esclusione social-scolastica, ha affidato la sua rabbia al presente più deleterio: l’arma. Facile usarla (il mercato ne è pieno). Come estrarre da un blister una pastiglia di aspirina o ecstasy. Alla classica canna di hashish forse non ci ha nemmeno pensato. No, ha palleggiato drammaticamente con l’unica cosa disponibile: il presente. Null’altro che quello. Altro non possedeva. La parola “elaborazione“ (di un lutto, di una difficoltà grave ecc.) coniata principalmente dalla psicoanalisi, implica l’abitudine a ragionare su se stessi, a formulare tante soluzioni come vie di fuga. Ma Nikolas (nella foto al momento dell’arresto), e con lui milioni di altri ragazzi, non riesce ad allontanarsi dal disagio per esaminarlo meglio. È immobilizzato dal suo tragicamente elementare “presente”. Entra in un film o in un cartone animato e “gliela fa pagare“. Ossia spara. E gli altri? Birilli da giostra o da luna park, invisibili quasi.

Galimberti, riferendosi al nichilismo come mancanza del fine e della risposta al perché, annota che da anni a questa parte, poco o nulla è cambiato. Fatta eccezione del passaggio dal nichilismo passivo al nichilismo attivo. Lo psichiatra ricorda la lettera inviatagli da una ragazza, sbalestrata da tanti mutamenti geografici e familiari. Ebbene, la giovane donna si è chiesta se straniero si scriva con la S maiuscola. Una sua coetanea afferma, come in una preghiera laica, che «a vent’anni bisognerebbe aver fame di consapevolezza».

Se è vero, come sembra vero, che il diciannovenne killer della Florida venne segnalato come “strano” (parola generica, ma che deve destare allarme e rimedi da parte di quell’assistenza sociale potenziata da Barack Obama e derisa da Trump), ci si chiede allora come mai sia stato espulso perché “troppo esuberante” senza che nessuno si sia sinceramente posta questa semplice domanda (di sapore kennedyano): che cosa possiamo fare per lui? Gli insegnanti? Sono spesso figure che vanno e che raramente tornano (il più delle volte, dopo anche una buona comparsata in aula, in senso qualitativo più che umano), nel senso vero o soltanto come punti di riferimento cui aggrapparsi nel tempo a venire. Galimberti ammette che molti, ma non tutti s’intende, non hanno una competenza sufficiente nella loro materia («e questa è cosa nota»). E gli studenti? «Si arrangiano come possono», magari con corsi di recupero, per chi se lo può economicamente permettere. Risultato: dispersione scolastica. L’autore a un suo giovane corrispondente dice: «Essere laureati oggi non è di per sé indice di competenza… posso garantirle che ci si può laureare anche senza mai aver letto una sola pagina di Platone o di Kant». E aggiunge che «è Platone a insegnarci che s’impara per la fascinazione, perché nell’età dell’adolescenza (ormai dilatatissima, ndr) la mente si apre quando la sfera emotiva è aperta».

E in America, dove sembra vincere il più crudo pragmatismo? È universalmente noto che i giovani italiani sono assai più colti – e aperti alla cultura, anche in senso emotivo – dei coetanei americani. Ma sono forse, e purtroppo, impegnati ad affrontare quell’“ospite inquietante” che è il nichilismo. In un esergo a un suo capitolo, Galimberti scrive: «C’è un concorso di colpa che chiama in causa gli insegnanti demotivati, i genitori sindacalisti, i presidi benevoli, il Ministero dell’Istruzione con la sua cascata di riforme burocratiche. Sono tanti i colpevoli del fallimento dell’istruzione e i responsabili del trionfo dell’ignoranza». A proposito del sistema americano – con le dovute e a volte splendide eccezioni – risultano voci del deserto quelle che s’interrogano sul disagio, per giunta palese, dei tanti Nikolas Cruz che sono ingabbiati in una Guantanamo della solitudine, del rancore e dell’impossibilità di guardarsi dentro. Il compito di calarsi in un piccolo e personale profondo è reso più arduo, o addirittura impossibile e viene spesso frantumato all’origine. A scuola e spesso in famiglia nessuno offre spunti validi. E tutto questo nel clima eticamente volgare del continente governato dall’egotico Donald Trump, che alcuni suoi stretti collaboratori non esitano a definire “idiota”.

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