Giuliana Vitali
Su “L’inconveniente di essere nati”

Accademia Ionesco

Il francesista Giuseppe Grasso pubblica una vecchia intervista a Eugène Ionesco sul teatro, il realismo e il senso delle avanguardie degli anni Cinquanta. Una riflessione importante sul secolo delle illusioni

Con il libro Intervista con Ionesco. L’inconveniente di essere nati (Solfanelli ed., 88 pag., € 9,00), Giuseppe Grasso – francesista, filologo, giornalista, traduttore – punta alla divulgazione senza rinunciare all’approfondimento, rivalutando il ruolo del giornalista che mettendosi da parte – ma senza scomparire – restituisce voce al personaggio intervistato e alle sue opere.

Lo scritto si divide in tre parti: Quasi una giustificazione che comprende un breve saggio con digressioni sul pensiero ioneschiano, note con citazioni da opere letterarie o da giornali come “Le Monde”, “Il Corriere della sera” dagli anni ’60 agli ’80 e da confessioni dello stesso Ionesco; l’intervista a Ionesco; Congedo in cui raccoglie riflessioni, impressioni dopo quello che per lui si rivelò un illuminante incontro. A chiudere il libro uno scritto del commediografo su Beckett che tratta soprattutto del rapporto tra arte e metafisica.

Come suggerisce nella prefazione Simone Gambacorta, il dialogo sembra rievocare quello tra le sorelle Bennet del romanzo Orgoglio e pregiudizio di Jane Austen: «[…] il loro è un ascolto attivo e dà frutto perché non presuppone subalternità fra i ruoli […]». Così Grasso, all’epoca trentenne, e il personaggio Ionesco si esprimono in una coinvolgente e stimolante comunicazione per poi intraprendere un vero e proprio viaggio tra storia, letteratura e filosofia.

Lo scrittore di origine rumena fu testimone, in Francia, delle più grandi atrocità del Novecento, dalle due Guerre in Europa al fallimento delle ideologie politiche tanto che la morte, la paura, le inquietudini diventano ossessioni che rappresenterà nel suo teatro dell’assurdo o come lui stesso afferma – di esplorazione. «[…] Il teatro è una discesa agli Inferi – racconta –. Le mie paure sono quelle degli altri» e l’unico modo per poter esprimere la condizione esistenziale dell’essere umano è il linguaggio dell’irrazionalità, del nonsense, del paradosso e perciò della metafisica. La maniera per riuscire a sopravvivere è la risata, la derisione che si manifesta come presa di coscienza: «[…] sono stato indubbiamente ispirato dalla storia di quel monaco zen che, giunto alla soglia della vecchiaia, dopo avere cercato un senso all’universo per tutta la vita, un inizio di spiegazione, una chiave, tutt’a un tratto ha un’illuminazione. Guardandosi attorno con un nuovo sguardo, esclama: che inganno! E scoppia a ridere».

Così il suo linguaggio si apre alla comunicabilità immediata e all’intuizione senza divenire teatro per i soli addetti al mestiere. È un teatro antirealista e la sua visionarietà, questa forma alternativa di verità, va a scontrarsi con diversi critici degli anni ’50 e ‘60 che lo disapprovano. Rifiuta la rappresentazione della realtà cronachistica: «È menzogna. […] È solo una copia della realtà […]», dice. «La verità sta nell’immaginario ed è nella sfera dell’immaginario che la materia teatrale trova la sua ispirazione e autenticità più profonda».

Il suo talento avanguardistico trova voce, per esempio, in un monologo di uno dei suoi personaggi – Berenger – che chiude l’opera teatrale de Il rinoceronte: «No, non sono bello, non sono per niente bello! Sono loro che sono belli! Avevo torto! Ah, vorrei essere come loro! Non ho niente in testa, neanche un corno! […] Come sono brutto! Guai a colui che vuole conservare la sua originalità! E allora, tanto peggio! […] Contro tutti quanti mi difenderò, […] Sono l’ultimo uomo, e lo resterò fino alla fine! Io non mi arrendo! […]»; Berenger che forse potrebbe essere identificato con l’autore stesso, è in continua lotta tra il desiderio di omologazione e la consapevolezza della propria unicità che lo condannerà all’alienazione, a una invitabile solitudine e infelicità.

Durante l’intervista viene fuori un uomo ironico, provocatore come nella conversazione su Hugo: «L’affondo a Hugo è decisivo, feroce, […] Ionesco è in qualche modo l’anti-Hugo. […] Gli chiediamo qual è la prospettiva in cui si muove il suo libro giovanile», continua Grasso, a proposito del libro-biografia che ha dedicato allo scrittore: «Io mostro Hugo che si nasconde seminudo, in mutandoni, quando arriva il commissario di polizia, sotto il letto dell’adulterio […]», risponde citando l’aneddoto di quando lo scrittore fu sorpreso con l’amante.

Antagonista della cultura ideologica e razionalista del tempo, il suo avanguardismo cerca la rottura con i canoni artistici del passato ma allo stesso tempo recuperando i topoi della cultura classica; «Ogni vero creatore è un classico», afferma; così l’arte classica viene estrapolata dal proprio contesto collocandosi al confine tra metafisica e surrealismo. E proprio su questa linea d’ombra sembrano formarsi i caratteri dei personaggi macchiettistici, ironici, grotteschi rappresentati nel teatro ioneschiano.

L’innovazione di Ionesco sta nella ricerca di una verità attraverso la sperimentazione nella forma, nel linguaggio metafisico per poter tradurre in azioni e in parole un pessimismo ontologico, la tragicommedia esistenziale; e con questo libro-intervista Grasso potrebbe riaprire un dibattito, quello sulla ricerca di linguaggi alternativi che possano creare nuove forme artistiche. È possibile oggi un nuovo stato di creatività? O come afferma Ionesco già dagli anni Ottanta «il teatro è morto»?

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