Alberto Fraccacreta
A proposito di “E così via”

Le lingue di Brodskij

Adelphi pubblica l'ultima raccolta poetica di Iosif Brodskij: un gioco di rifrazioni, scritto parte in russo parte in inglese, alla ricerca di un'identità divisa nella quale le parole sono emozioni

Non è detto che la poesia abbia il suo unico referente nel linguaggio. Certo, quest’ultimo è il “corpo” del poëticum, la base solida e concreta grazie alla quale è possibile osservare la cosiddetta tensione lirica. Ma qual è il suo “spirito”? Dove risiede il senso della poesia? In quale regione dell’interiorità la consistenza delle lettere lascia spazio al flusso impalpabile delle immagini? In definitiva, cosa c’è oltre il segno? Secondo il grande linguista russo Roman Jakobson, esponente della celebre corrente del formalismo, la funzione poetica della lingua è nell’attimo in cui il messaggio ricade su se stesso, sì da costringere il ricevente a ricodificare il testo da capo a coda. Anche gli slogan pubblicitari possono avere una funzione poetica, così come le frasi sui muri. Eppure, c’è ancora qualcosa che sfugge. Forse il vero carattere della poesia è nella sua sostanziale ineffabilità, cosa che la magistra di tutte le arti condivide con il mistero dell’essere femminino (ed è questo il motivo per cui Dante e gli stilnovisti vedono nella loro “madonna” la saturazione dell’immagine). Il tema è importante e Iosif Brodskij, slittando con audeniana noblesse sul limite del dicibile, lo affronta singolarmente in E così via (Adelphi, pagine 256, euro 22), silloge consegnata dal Premio Nobel all’editore una settimana prima che fosse stroncato da un infarto.

Il libro fu pubblicato in America nel 1996 con il titolo So Forth: si tratta di una ramificazione di alcuni testi autotradotti dal russo e di altri scritti direttamente in inglese. L’operazione editoriale adelphiana tenta, invece, di andare filologicamente alla genesi delle poesie: Matteo Campagnoli traduce l’inglese e Anna Raffetto il russo (l’originale, quindi), accorciando a prima vista lo scarto tra gli idiomi e il principio analogico della traduzione – in questo caso dell’autotraduzione – il solco attraverso cui Brodskij stesso passa nel suo pattinaggio liminare. Nondimeno, le forche caudine dell’espressione lirica torcono talora, in una stessa direzione, entrambe le lingue in modo che appare di sbieco un idioma complessivo e ultraidentitario, una sformata e lampeggiante koinè che Benjamin non esitò a definire “lingua pura”, divina e antibabelica, vicina all’integrità dell’humanitas e visibile proprio nei processi traduttivi e riadattativi. Lingua che non lontana dal transmentalismo della tradizione russa di Aleksèj Kručënych e Velmir Chlebnikov (fino ad arrivare a Daniil Charms).

Paradigmatico è il caso della lirica To my daughter, in cui l’autore pietroburghese ammette che dentro ai suoi «versi un po’ legnosi» c’è traccia di una «nostra lingua comune». La città dell’anima che assomma in sé un’origine frammentaria ma segnante (Brodskij è un poeta delle città, basti pensare alla Venezia del saggio-poema Fondamenta degli Incurabili o a Leningrado e Istanbul di Fuga da Bisanzio), volge così verso una sua gemella celeste e ideale, antesignana di tutti i luoghi e tutti i tempi, «nell’anticamera dell’Età dell’Oro», nel nuovo tentativo di comunione e conclusione dell’umano. In un clima da Apocalisse, da “giudizio universale con pause”, «il mondo è fermo, come un trattato/ senza una segnatura». Fermo, forse, ciclicamente a quel punto e a quel momento preciso «tra rade nubi, di lontano, dalle profondità/ del Cosmo». Ossia alla nascita del bimbo, all’incontro tra due punti enormi e minuscoli, la stella che «di un Padre era lo sguardo».

Brodskij ammira Montale e, dunque, il lato metafisico della poesia (da Baudelaire e Browning in giù). Per una ragione di ordine puramente “calcistico” ― poesia metafisica versus poesia simbolista ― milita in quella squadra che esprime meglio il suo gioco nell’inferenza del trascendente nel fisico e, sotto il profilo stilistico, in un modernismo di fondo, il quale include l’uso sfalsato della rima, l’ironia come arma di capovolgimento concettuale, il cozzo tra aulico e prosaico («un angelo di bambagia/ sospeso finora a grucce di metallo/ dentro lo sgabuzzino»).

Recuperare il contatto primigenio con il linguaggio significa, allora, come è detto in Infinitive, lirica incipitaria dell’opera, poter guardare a «una vita senza specchi» nella «sabbia bagnata e vitrea al tramonto» mentre le cime delle palme sono «strombate contro il cielo platino» che «le scompiglia troppo in fretta perché si possa decifrarne il messaggio». Per adesso, un po’ come l’esistenza per speculum in aenigmate. Aspettando di poter vedere faccia a faccia.

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