Giuseppe Grattacaso
Promemoria per il 2018/1

La padella di Cracco

Corriamo alla velocità di trenta chilometri al secondo (milleottocento in un minuto!) per fare il nostro giro ellittico nello spazio: impossibile capire cosa stia succedendo. Ma sappiamo tutto della filosofia degli chef

Aspetto che il mondo che farà venga a soccorso. Che accada nel duemiladiciotto o giù di lì poco importa, ma qualcosa è bene avvenga che ci tenga lontani da questo fastidioso senso di malessere, dalla sensazione continua di non farcela, di aver perso la testa e preso la strada sbagliata. Il risultato, paradossale a ben guardare, del perdurante stato di insoddisfazione, è la condizione perenne di sovraeccitazione in cui viviamo da qualche decennio. Più la parola crisi ci perseguita e più alziamo il tono della voce, ridiamo con sguaiata esibizione, ci spostiamo velocemente da un posto all’altro, spesso senza averne bisogno.

Va detto che non c’è alcuna ragione che ci costringa ad essere esagitati. Ci pensa già il mondo, appunto, a non darci tregua. La Terra gira intorno al proprio asse con una velocità all’equatore di millesettecento chilometri all’ora, pari a poco più di ventotto chilometri al minuto. Non basta. Per compiere il giro intorno al Sole, rispettando le scadenze a cui siamo abituati, è necessario che il pianeta si muova, e noi con lui, superando i centosettemila chilometri in un’ora, pari a circa trenta chilometri al secondo. Non è male, trenta chilometri al secondo (milleottocento in un minuto!) per fare il nostro giro ellittico nello spazio, lontani da tutto, compresa ogni ipotesi di capire cosa stia succedendo. C’è di che far girare la testa, a prescindere. Hai voglia di tentare di riposarti, non c’è proprio modo di stare fermi.

Dovremmo insomma puntare al rallentamento. Invece vortichiamo frenetici ed esaltati, su di giri, anche quando potremmo farne a meno, anche quando sul divano ci concediamo alle notizie di un telegiornale, o di un giornale, che abbiamo tra le mani o sull’I-pad.

I toni. Il primo augurio è dunque quello di abbassare i toni. Per stare un po’ meglio, basterebbe essere meno eccitati. Bisognerebbe cominciare dal linguaggio, dalle parole che sono senza dubbio il nostro pane quotidiano. Per esempio da quelle che usano i media. Le notizie arrivano in ogni dove e ci raggiungono troppo in fretta, per cui auguro a tutti che la prossima pioggia abbondante non venga strombazzata come “bomba d’acqua”, che ogni nuovo caso di meningite non sia classificato come “il propagarsi dell’epidemia”, che il prossimo aumento delle tasse non sia una “stangata”, che uno sbarco di derelitti impauriti non faccia gridare all’“invasione”. Mi auguro che la vittoria a uno degli innumerevoli talent show non faccia parlare di “trionfo” in un “tripudio” di abbracci e lacrime.

Insomma, sarebbe bello se una mancata qualificazione ai mondiali di calcio (tranquilli, almeno questo tracollo emotivo l’anno prossimo lo scampiamo) non fosse prospettata come una “apocalisse” e non divenisse poi un “incubo”; che il capitano della squadra nazionale non qualificata non si producesse in una frase degna di Churchill: «Siamo un popolo orgoglioso, troveremo la forza per rialzarci». Troviamo un po’ di forza, caro Buffon, ma per rimanere seduti culo a terra: per un po’ evitiamo i proclami, le dichiarazioni ad effetto, gli appelli.

Nemici in chat. A proposito di calcio, mi viene in mente che sarebbe bello se non vedessimo nemici dappertutto. Se dietro ai nostri errori o alle difficoltà che ci colpiscono, non sospettassimo sempre la mano di qualcuno, un disegno ordito da esperti in complotti (per il calcio, nell’ordine: la Federazione, l’arbitro, i tifosi avversari, la VAR, i propri calciatori). All’indomani dell’eliminazione dell’Italia dai mondiali, Salvini tuonò, anzi twittò, “Troppi stranieri!” (hashtag #stopinvasione). La mancata qualificazione non era un risultato dovuto a coloro che erano scesi in campo, ma colpa di quelli che non c’erano. E poi, come non averci pensato prima? l’immigrazione verso il nostro paese è alimentata dai grandi club calcistici: una trovata degna di uno statista da gioco da tavolo, di un rappresentante delle istituzioni da Mercante in Fiera.

Qualsiasi cosa ci accada, è colpa di qualcuno, che diventa automaticamente un nemico contro cui organizzarsi. Dall’assessore alla mobilità, reo di non aver pensato al parcheggio per la nostra autovettura, all’impiegato delle poste, colpevole per antonomasia, dal ministro all’insegnante, sono tutti rei di qualcosa, degli incapaci lasciati a fare danni mentre noi fatichiamo senza sosta.

Siamo un popolo di ultras, organizzati in comitati funzionanti tramite chat. L’augurio è di non vergognarci se non faremo per un anno dichiarazioni bellicose nei confronti del malcapitato di turno e che la prima chat in cui verremo inseriti nel 2018 sia quella per organizzare il veglione di San Silvestro: dieci giorni prima della fine dell’anno.

L’età della musichetta. Perché per tutto l’anno che si sta concludendo ho preso un caffè al bar, ho mangiato al ristorante, ho vagato tra i banchi del supermercato, ho atteso di essere trasferito all’operatore telefonico con cui avrei voluto parlare, sempre accompagnato da una musica ad alto volume? Perché ogni volta che addento un rigatone al pomodoro devo sperare che il cameriere capisca dal mio sguardo che proprio non mi va di ascoltare la sua scelta musicale? Perché nel menù della pizzeria non è specificato anche il palinsesto delle programmazioni radiofoniche? Perché il dentista non mi avverte che ama la Pausini, prima di invitarmi a sedere nella sala d’aspetto? Mi auguro che nel calendario astrologico di non so quale popolazione dell’est asiatico sia previsto che nel 2018 si esca dall’età della musichetta per entrare in quella della chiacchiera a basso impatto ambientale.

Vicini di casa. Non ho niente contro i vicini di casa. I miei poi sono simpatici, silenziosi, rispettosi della privacy. Ma mi sgomenta come, non loro in particolare, ma i rappresentanti della categoria in generale, abbiano sempre qualcosa da dire quando succede una disgrazia nel loro condominio. Non li vedevamo mai, erano molto riservati, uscivano solo per andare a fare la spesa, non li ho mai sentiti litigare, amava molto i suoi bambini, vestiva sempre di nero, erano persone normali: sequenze di informazioni utili solo per garantirsi una comparsata al tg e inutili al resto dell’umanità, che dovrebbe invece, non si sa perché, ascoltarle, peraltro nel tono concitato, emozionato, commosso, appassionato che i vicini sono soliti avere quando incrociano una telecamera.

Se proprio non si potrà fare a meno delle disgrazie (da un punto di vista statistico appare piuttosto improbabile), che almeno esse avvengano in luoghi poco abitati o dove i vicini di casa siano distratti, muti, omertosi.

Cuochi e scrittori. Ma l’augurio più sentito, a proposito di parole sperperate sguaiate urlate eccessive o solamente inutili, è che a scrivere libri siano solamente gli scrittori, e che ci sia una moratoria nel 2018 nella pubblicazione di romanzi gialli. Sarebbe già una bella fortuna se Bruno Vespa, Maurizio Belpietro, Marco Travaglio, Michelle Hunziker, Antonino Cannavacciuolo, Alessandro Del Piero, Antonella Clerici, Benedetta Parodi, Matteo Salvini (ultimo bestseller Secondo Matteo, sottotitolo: Follia e coraggio per cambiare il Paese), Matteo Renzi (Avanti. Perché l’Italia non si ferma) avessero altro da fare che scrivere. E che dire poi di un anno senza che il tuo compagno di scuola delle elementari ti raggiunga su Facebook per informarti che finalmente ha scritto un romanzo: «Ma stai tranquillo, è un giallo».

Che anno, il 2018, se i cuochi tornassero a fare i cuochi e Cracco spadellasse in cucina (elegantissima e sponsorizzata, perché no) o mangiasse patatine fritte confezionate in buste di plastica, senza esibirsi in annunci da nouvelle philosophie!

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Accanto al titolo: “Ragazzo che beve” di Annibale Carracci, 1580-1585

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