Simonetta Milazzo
All'Accademia di San Luca

Le muse di Jim Dine

Poesia e colori, legno inciso e gessi scolpiti: Roma rende omaggio all'artista americano Jim Dine partito nelle spire del New Dada e arrivato all'essenza della materia

Jim Dine è dell’Accademia di San Luca. La prestigiosa istituzione ha eletto nel 2016, nel novero dei suoi membri, il grande artista americano e, dal 27 ottobre al 3 febbraio 2018 a Roma, nella sede di Palazzo Carpegna, il suo lavoro più recente, House of Words (dal ciclo di conferenze tenute nel 2013), si visita, si ammira, si ascolta. Preparatevi a una visione corposa!

Il suo faccione campeggia bianco in mezzo alla sala; lo ha realizzato, scansionando il suo volto, le sue pronunciate orecchie, poi lo ha trasferito in 3D. Il materiale è legno ricoperto di gesso. Intorno ad esso un corteggiamento di muse, alte sopra la sua testa, danzanti e prorompenti dalle forme piene; per nulla classiche, benché tutto abbia avuto inizio presso il Getty Museum di New York. Era il 2007, quando il museo americano gli chiese di misurarsi proprio con l’arte classica e di porsi il quesito su come rispondere ad essa, come reagire. Dine vi trovò all’interno una scultura di Orfeo. Dall’osservazione di piccole statuine di terracotta policroma della Grecia antica nasce e si completa il lavoro che ha portato in questi giorni all’Accademia. Le cinque sculture sono state realizzate in un legno non stagionato, così da conservare in sé elementi di quasi freschezza, più vitali del marmo.

Un legno ricavato da querce rosse americane, prima sgrossato, poi scolpito e interpretato per imprimere una sorta di allusione al movimento, pur nel volutamente angusto spazio in cui sono state collocate le statue per ispirare in qualche misura il maestro tutto volto, poggiato a terra. Sulle pareti intorno, ovunque, dal pavimento al soffitto, si dispiega la rappresentazione di “Flowering Sheets”, ben tradotto in “Fogli in Fiore”. I muri sono il supporto su cui Jim Dine ha trascritto i suoi versi, avvalendosi di una lunga pertica in cima alla quale ha applicato un bastoncino di carboncino, per marcare il suo racconto, le sue osservazioni, il suo autoritratto in poesia; linguaggio che si fa forma in una spiccata enfasi visiva. Le parole sono tracciate sui muri – alcune di esse quasi cancellate, si direbbero sporcate – altre hanno grafie giganti in maiuscolo, oppure impresse in corsivo, altre ancora in chiaro, su fondo macchiato. Altrove invece le scritte sono più minute, ad accavallarsi e a rincorrersi distorte, ma comunque leggibili, ingrandimenti e riduzioni messe a fuoco comunque, che risaltano agli occhi e si soffermano nella mente. Sembra quasi sentirle pronunciare, sottolineare, gridare; sì, l’occhio ascolta!

Ogni visitatore, alle prese con il meccanismo narrativo, sceglierà cosa vedere, cosa cogliere e sarà con versi come “Petals of rain on the hard crust of day old memory” (petali di pioggia sulla dura crosta di ricordi vecchi di un giorno) o come “Do you agree to send some poems to a person who has always been lost? (saresti disposto a scrivere delle poesie a una persona che è da sempre persa?) che si potrà andare al di là di quel linguaggio apparentemente stabile e si sarà indotti a cercare di capire perché “just above… pure saltwater swimming is a vehicle of lyricism” (appena oltre l’integralismo del nuoto in acque salate, c’è un veicolo di lirismo).

Chi osserva potrà sentirsi invitato a cercare risposte per un mondo da capire, da interpretare nella propria memoria; molti vorranno darsi una spiegazione; chi li leggerà potrà intraprendere anche un viaggio avvincente nell’attualità, una lettura della realtà, ben oltre le pareti di quella stanza, al piano terra di un Palazzo.

Jim Dine, in una performance annunciata per il 7 novembre alle ore 18.30, pronuncerà quei versi in un rinnovato happening, nella Chiesa dei Santi Luca e Martina ai Fori Imperiali. E chissà se in quella occasione, avvertirà l’impulso di apportare piccole modifiche ai testi, come del resto, spiazzando la sua traduttrice, ha già fatto nel breve tempo trascorso tra la consegna all’editore dei brani del catalogo – per altro ricco delle immagini del suo allestimento in corso d’opera – e la generazione, di sua mano, del racconto sulle pareti. È plausibile che piccoli brani li voglia in parte rinnovare; proprio perché egli ha sentito lungo la sua carriera, e sente tutt’ora, il bisogno pressante di attualizzare linguaggio e comunicazione; un po’ alla maniera degli artisti di Fluxus quando affermano “che Il tempo influenza l’arte, che il tempo va inserito nell’arte”, e con i quali non è peregrino rintracciare affinità e sintonia in una fase della sua carriera, carriera segnata anche dalla vicinanza con l’altra tendenza delle arti visive: New Dada. E nonostante che Dine, in realtà, non si riconosca nella corrente neo dadaista, ne fu comunque confermato esponente quando, insieme a Jasper Johns e Robert Rauschemberg, partecipò a “Contemporanea”, organizzata da Incontri Internazionali d’Arte, straordinaria e indimenticabile mostra del 1973 a Roma, a Villa Borghese, nel parcheggio sotterraneo da poco costruito, in quell’occasione ancora vuoto. Per nulla, invece – e vale la pena di ribadirlo – Jim Dine è associabile alla Pop Art, da cui si è distaccato pressoché da subito, nonostante svariati tentativi, da parte di certa critica, di assimilarlo a quella corrente.

Oltre a “The Muse”, Dine ha portato con sé un lavoro inedito e completo: un ciclo pittorico del 2015, dal titolo “Seven Black Paintings”. Sette opere poste all’interno di altre due sale dell’Accademia, che raccontano del maestro non solo il suo essere poliedrico, “…la controllata versatilità…” (Alberto Boatto, 1965), ma testimoniano anche la svolta, a far data dal 2013, dell’artista ottantenne verso l’astrattismo. Su di esse il pigmento in nero è senza dubbio presente, ma insieme a un dispiego di altri colori accesi e di elementi materici come grumi di sabbia in evidenza a marcare intrecci e “smarginamenti” di pittura acrilica e carboncino; una drammatizzazione del colore, un colore né quieto, né pacato. “There is an abstract career”, “C’è una carriera nell’astratto”…

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