Anna Camaiti Hostert
Cartolina dall'America

Trump e Kim, gli insicuri

Trump e Kim Jong Un sono due leader deboli allo specchio. Per salvare tutti, gli Usa pensano a un cartello di potenze nucleari in grado di dettare regole alla Corea del Nord. Ma i due capi continuano a "giocare"...

Se Obama era il simbolo dell’equilibrio della diplomazia, della ragionevolezza che non escludeva tuttavia i sentimenti e le passioni (diverse volte, seppure con pudore, lo abbiamo visto piangere e commuoversi pubblicamente), Trump, al contrario – simile in questo al “bestione vichiano” a cui manca il lume della ragione, ma anche quello della ragionevolezza – si lancia in tweet o in discorsi che espongono la sua mercurialità, la sua volubilità, il suo narcisismo. E soprattutto la sua necessità diarroica costante di manifestare tutto quello che pensa. Atteggiamento che è il contrario di quello che dovrebbe essere la mediazione politica, quella che avviene con discrezione, attraverso la negoziazione, la trattativa, la diplomazia. Da non confondere con la mediatezza che è quel diluire gli obiettivi di qualsiasi trattativa.

Così, in questa ultima settimana, Trump ha affermato che i giocatori di football che non si alzano in piedi durante l’inno nazionale dovrebbero essere licenziati («They should be fired, fired!», ha ripetuto visibilmente compiacendosi del suo commento), usando la stessa terminologia del suo reality show. Poi ha avuto inoltre uno scambio veemente con la sindaca di San Juan, capitale di Portorico, che dopo l’uragano Maria, ancora langue in una situazione terribile senza aiuti effettivi che ripristinino una situazione di apparente normalità. Alla sindaca, Carmen Yulin Cruz, che ha implorato aiuti per la sua gente che sta morendo, Trump ha risposto con un tweet che invita la comunità portoricana ad aiutarsi da sola. Infine alcuni giorni fa il presidente ha definito Kim Jong Un «a little rocket man», l’ometto della bomba, a cui il dittatore nordcoreano ha risposto chiamandolo con un termine inglese obsoleto «a dotard», un vecchio rimbambito.

In questo caso, le parole con cui questi due uomini di potere si rivolgono l’uno all’altro sono molto simili nel tono e nel fatto che di politico hanno poco. Sono semplicemente offese personali che rimandano più alle zuffe tra teenager in piena tempesta ormonale che a un dialogo tra due capi di stato. Infatti, queste parole e questa retorica, in generale, escludono completamente la diplomazia che a questi livelli dovrebbe prevalere specialmente riguardo a un problema ignorato da tutto l’Occidente per troppo tempo fino ad ora. Le parole dei due uomini di stato certo non facilitano una soluzione che, se non verrà trovata a breve, rischia davvero di farci precipitare in un abisso senza ritorno. Perché fanno tremare i paesi che ne sono coinvolti nel timore che si possa scatenare una guerra, di cui già il ministro degli esteri nordcoreano ha parlato affermando che «Trump ha dichiarato guerra al nostro paese». Anche se va riconosciuto che il dittatore nordcoreano sembra avere una strategia politica che invece il presidente americano non ha.

Il segretario di Stato Usa, Rex Tillerson (nella foto), che si è recato recentemente in Cina per preparare la visita di Trump in Asia il prossimo mese, ha affermato, cercando di smorzare i toni, che Trump si è espresso in quei termini perché «stava mandando un messaggio forte usando un linguaggio che Kim Jong Un avrebbe potuto capire». Durante il prudentissimo viaggio in Cina (Tillerson ha cercato di smorzare anche un’affermazione precedente di Trump rispetto al fatto che la Nord Corea «è una minaccia e un imbarazzo per la Cina), il segretario di Stato ha per fortuna affermato che ci saranno trattative dirette tra Washington e la capitale nordcoreana e che «ci sono vari canali di comunicazione aperti con Pyongyang». Di ciò, però, alla fine della breve visita, nelle dichiarazioni congiunte con il ministro degli esteri cinese, Wang Yi non c’è stata traccia, in quanto l’interesse sembra più concentrato sulla prossima visita di Trump in Asia che il primo ministro cinese Xi Jinping ha preannunciato sarà «speciale, meravigliosa e di grande successo». E di successo il leader cinese ha bisogno, proprio in previsione del 19esimo Congresso del partito che si terrà anch’esso il prossimo mese. Dunque, qualsiasi mossa a sorpresa da parte di Trump o di Kim Jong Un deve essere evitata. Inoltre la Cina ha interesse a una situazione di stabilità in Nord Corea.

A questo comportamento prettamente politico si oppone quello dei due leader, Trump e Kim, i quali, pur essendo i più alti rappresentanti dei loro paesi, vivono e parlano in un modo fra loro molto simile e assai lontano dalla politica. In un bell’articolo del Washington Post, Isaac Stone Fish ci parla delle similarità di questi due uomini: senso di inadeguatezza, incapacità di tollerare le critiche e bisogno costante di essere adulati; e, dunque, senso di insicurezza. Personale e politico. Che si manifesta, tra le altre cose, nota il giornalista, in ambedue, attraverso una profonda misoginia. Il che ci porta però a una considerazione sul consenso politico su cui questi due capi di stato possono contare.

Kim Jong Un è capo di un paese poverissimo sul quale esercita un potere assoluto e del quale controlla ogni minimo battito con un regime basato sulla paura. I governi totalitari, come il suo, sono opachi e prima che si venga a sapere qualcosa, il malessere deve diventare evidente a tutti a portare a conseguenze inarrestabili di che mettano in pericolo il potere del dittatore. Ma questo al momento non sta accadendo. Certo è che con l’insicurezza viene la paranoia e il sospetto di minacce che possono arrivare da ogni parte, come nel caso del fratellastro che Kim Jong Un, fatto assassinare a Kuala Lampur da sicari mandati da Pyongyang. Il che denota un elemento di grande debolezza. La sicurezza del potere interno è pertanto il motivo principale che spinge il dittatore a compiere esperimenti nucleari arditi che lo legittimino in modo assoluto alla guida del paese.

Dall’altro lato, Trump si trova in casa un partito repubblicano diviso che non riesce ad accordarsi neanche su come sostituire la Obamacare (uno dei punti focali della sua campagna elettorale) e che ogni giorno rivela scontri interni che indeboliscono di molto anche la capacità contrattuale con i democratici con cui paradossalmente Trump è disposto a fare un accordo. La sua personalità non aiuta di certo a superare le spaccature. Dunque, anche per Trump c’è una situazione di estrema debolezza e di laceranti divisioni che dovrebbero incoraggiare la prudenza in politica estera. Ma la sua incapacità di fare politica e il suo narcisismo lo spingono ad ignorarla. E dunque la situazione si complica e la sua posizione si indebolisce.

Certo le due opzioni che al momento ha di fronte sono ambedue impraticabili e difficili. La prima prevede l’accettazione di una Nord Corea potenza nucleare, la seconda, un intervento militare. E ambedue queste scelte tendono a rafforzare la posizione di Kim Jong Un. Nel primo caso, infatti, la Nord Corea avrebbe quello che vuole, nel secondo l’azione diretta porterebbe a una rottura delle alleanze in quell’area, principalmente con la Cina, e avrebbe conseguenze drastiche. Dunque l’unica possibilità sembra una dilazione delle ambizioni nucleari nordcoreane esercitata attraverso punti di pressione diversi da quello militare.

In un articolo sul Washington Post, Fareed Zakaria parla di un piano che circola negli ambienti di Washington e che prevedrebbe una conferenza internazionale sulla proliferazione nucleare a cui dovrebbero partecipare tutti i paesi che possiedono armi nucleari, con l’intento di non espandere l’arsenale per un certo periodo di tempo. Cosa che sarebbe verificata da ispettori internazionali. «Tutte le nazioni – scrive Zakaria – dovrebbero acconsentire a non acquistare armi nucleari. In modo cruciale, la Nord Corea dovrebbe essere invitata a firmare questo patto come stato nucleare con l’idea di congelare gli esperimenti ed essere d’accordo più tardi per una denuclearizzazione del paese… Questo condurrebbe il problema della Nord Corea in un contesto più ampio sulla proliferazione nucleare dando ad ognuno una via d’uscita. Creerebbe, infatti, una coalizione globale che potrebbe imporre sanzioni alla Nord Corea se disobbedisse agli accordi, coprendo le terga della Cina che potrebbe bloccare a ragione il suo alleato». Questo piano consentirebbe inoltre alla Cina la soluzione a certe sue preoccupazioni come ad esempio la caduta della Nord Corea e la garanzia che Sud Corea e Giappone non si dotino di armi nucleari. Ma questo fa parte di una strategia a lungo termine che certo Trump non concepisce.

Perciò Tillerson è volato a Pechino. Pertanto, l’opzione diplomatica di cui parla il segretario di Stato oggi sembra, al momento, l’unica praticabile nel lungo termine, anche se il terreno è molto scivoloso, soprattutto considerando le personalità dei leader dei due paesi in questione e la loro delicata situazione di politica interna.

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