Marco Ferrari
A cent'anni dalla nascita

Fortini, l’eretico

Ritratto di Franco Fortini, un uomo difficile nella sua veste di perenne polemista eretico e massimalista: non ortodosso come marxista, non istituzionale come letterato. Che pure ha segnato in modo indelebile la cultura del Novecento

È seppellito a Montemarcello, aveva casa a Bavognano, sopra Ameglia, ha forgiato una intera classe di intellettuali, è stato il più scomodo polemista degli Anni Settanta: nel centenario della nascita, Franco Fortini gode di un considerevole rilancio grazie soprattutto al Centro studi e all’Archivio a lui dedicato presso la Biblioteca Umanistica dell’Università di Siena dove insegnò.

Nato con il cognome Lattes a Firenze il 10 settembre 1917, riparato in Svizzera per problemi razziali durante la guerra e entrato nelle file della Resistenza in Val d’Ossola, fu quindi traduttore, poeta, saggista, critico letterario (L’Avanti, Il Manifesto, L’Espresso, Il Corriere della Sera, Officina e Quaderni Piacentini), narratore e professore all’Università di Siena. Ha dedicato libri a Goethe, Milton, Kafka, Brecht, Einstein, Eluard, Proust, Lukàcs, Adorno, ai formalisti russi e a molti altri autori. Una figura particolare, libera e polemica, sganciata dai partiti e dalla correnti letterarie (quando esserlo, viceversa, era spesso indispensabile per far carriera), capace di influenzare gli orientamenti della gioventù negli anni ribelli. Il suo percorso poetico culmina con la pubblicazione del libro Composita solvantur dove discute sulla vita e la morte con un senso estremo di solitudine alla fine oramai dei suoi giorni (è morto a Milano nel 1994), ma anche al termine delle grandi ideologie politiche.

Dopo il recente convegno a lui dedicato ad Alberese e la presentazione a Firenze della riedizione dell’antologia di Franco Fortini, a cura di Donatello Santarone, con un saggio introduttivo di Pier Vincenzo Mengaldo (Donzelli, 2017), il 24 e 25 ottobre alla Sala Napoleonica dell’Università degli Studi di Milano si terrà un convegno dedicato al rapporto tra Fortini e le istituzioni. Il 26 e 27 ottobre toccherà a Torino rendergli omaggio con il convegno “Franco Fortini: leggere e scrivere poesia” e infine a Siena dove dal 2 al 4 novembre si svolgerà il convegno su Fortini e le traduzioni con l’inaugurazione della mostra Je voudrais savoir, dedicata al suo viaggio in Cina del 1955 in compagnia di Antonicelli, Bernari, Bobbio, Calamandrei, Cassola, Treccani e Trombadori.

Un seminatore di provocazioni (ricordiamo il suo I cani del Sinai del 1967) che mal digeriva il confronto con gli altri intellettuali, chiuso nel suo tormento di vivere. Giovanni Raboni sostenne che fino all’ultimo giorno della vita Fortini si era rifiutato di smettere di sognare, parlando del presente in nome di un futuro che poi non si sarebbe avverato, come lui pensava e auspicava. Un uomo difficile nella sua veste di perenne polemista eretico, massimalista, non ortodosso come marxista, non istituzionale come letterato, anticonfessionale come intellettuale sensibile al pensiero religioso. Una specie di Savonarola degli anni di piombo che si cimentava nella critica della società, trasportata anche nella sua poesia. Nel volume Verifica dei poteri, un libro del 1965 riproposto adesso dal Saggiatore, si misura con padri ingombranti come Lukács, Auerbach, Spitzer, Goldmann e tanti altri. Fu amico e rivale di Pier Paolo Pasolini allo stesso tempo, come ha scritto Romano Luperini: «L’uno è poeta di un’inibizione, l’altro di un’esibizione. Fortini tende al distanziamento razionale e quasi classico, Pasolini alla visceralità. Il primo ha in orrore ogni eccesso vitalistico, odia l’intemperanza e la mancanza d’equilibrio sia nel comportamento sia nelle scelte linguistiche e ha sempre rifiutato lo sperimentalismo; il secondo trovò in una disperata vitalità l’unica ragione della sua esistenza».

Sullo stesso filone di confronto e amicizia, Franco Fortini sviluppò il rapporto con il poeta Vittorio Sereni, col quale condivideva le vacanze a Bocca di Magra. Fortini aveva una casa in alto, sulla strada che da Ameglia conduce a Montemarcello, da cui osservava a distanza le mosse dell’amico Sereni, disteso sul fiume Magra, scambiandosi corrispondenze dal tabaccaio, che fungeva da postino nostrano, incurante del ruolo di intermediario di uno degli epistolari più corposi e consistenti del secondo Novecento.

Il loro dialogo era iniziato negli Anni Trenta con incontri, lettere e critiche, ma soprattutto con rimandi poetici nei versi dell’uno e dell’altro. E non si interrompeva neppure nelle estati spezzine su argomenti impegnativi, non chiacchiere da spiaggia. «Certo, intorno agli anni Cinquanta capitava di parlare e di discutere anche molto, a volte di litigare, su argomenti dai quali, anche in vacanza, è difficile distogliersi. Figurarsi allora, nel pieno della guerra fredda, in un’Italia che già allora vedeva formarsi una spaccatura» ha scritto Sereni. I luoghi citati nel loro dialogo poetico sono veri punti geografici dell’emotività, meridiani del pathos, longitudini di passioni con accenni di drammaticità, non sul piano personale, ma su quelle idee, delle modalità di espressione, del ruolo della cultura, del modo di intendere l’evoluzione della lirismo poetico. Punti di vista che rappresentano tappe fondamentali per la poesia italiana.

Tra loro si accentuarono le diversità politiche negli Anni Cinquanta. In particolare a Fortini non andò giù di essere accostato alla schiera dei «parlanti parlanti / e ancora parlanti sull’onda della libertà». Cosa li separò progressivamente? Il discorso sulla militanza, voluta da Fortini, rifiutata da Sereni, il tema della speranza del cambiamento che vedeva impegnato il primo, estraneo il secondo. In una poesia fortiniana compare il sintagma “esile mito” per definire Sereni.

Quando nel 1983 Sereni morì, l’amico Fortini gli dedicò il testo Leggendo una poesia in cui la malinconia dell’addio supera ogni senso d’appartenenza: «Avrò parlato quel mattino/ come l’idiota che so essere. Qualche bava/ gaia avrò avuta alle labbra. Qualche sussidio/ per la mia giornata fino a notte./ Per arrivare a passi torti fino a notte./ Incredulo Sereni mi guardava/ offeso no ma stupefatto. Era seduto/ al suo tavolo e negli occhi sanguinosi/ gli duravano le grandi costruzioni della propria morte».

Lui restò abbarbicato su quel cassero di visioni verticali, tra fiume e mare, montagna e acqua, accompagnato dai rumori del bosco, ma anche da quelli della modernità, vincolato ad un paesaggio che lui sperava restasse eterno, ma non fu così. E se i suoi occhi erano puntati verso la foce del Magra, che nei giorni di piena paragonava al Yangtze, con gli amici più stretti qui elaborò quello “sguardo trasversale” che attraversa le sue molteplici figure, da poeta a insegnante, da critico letterario a editorialista, fustigatore del conformismo della sinistra, intellettuale scomodo ma soprattutto educatore, “frate, non prete”, severo al punto giusto, interessato più all’ossimoro che alla sintesi, maestro di quella generazione che scoprì l’impegno politico e civile.

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