Vincenzo Nuzzo
I pensieri deboli

È finita la filosofia?

La Filosofia si è chiusa in una Torre d’Avorio dalla quale guarda altezzosamente il mondo dopo aver negato la propria possibilità di capirlo. Basta leggere Merleau-Ponty per capire per quale strada si sia arrivati a questo punto

Come da sempre accade, la Filosofia sconcerta l’uomo comune. E, inoltre, tanto l’intellettuale pratico quanto anche lo stesso letterato. Questo è però ancora più valido oggi. La disciplina infatti si è rifugiata ormai in un gergo che, per chi non è avvezzo ad esso, è non solo impartecipabile ma anche spesso francamente insopportabile. E ciò significa che mai più che oggi la Filosofia si è chiusa in una Torre d’Avorio dalla quale essa guarda altezzosamente il mondo.

Il fenomeno diviene però ben più comprensibile se si considera che essa ha assunto ultimamente un complessivo assetto «realista», che davvero non ha precedenti nella sua storia. E questo è tanto più vero se si considera che, sulla base di tale visione, essa si è data ad un amplesso ormai davvero fusionale con la più avanzata Scienza naturale. Quella per la quale l’universo non è più affatto un Ordine ma è invece solo un’ineffabile Caos prepotentemente vitale. In altre parole la straordinaria impennata dell’orgoglio solipsistico ed auto-referenziale della Filosofia va oggi di pari passo con un’ormai esplicita rinuncia a se stessa (come disciplina indipendente). Essa, insomma, sembra essere giunta da sola alla conclusione di poter rappresentare solo e soltanto un pensiero puro ed astratto, che alcuna presa può e deve avere sulla realtà concreta. In tal modo, dunque, la Filosofia viene ormai incontro sua sponte agli argomenti denigratori (dell’uomo comune e dell’intellettuale pratico) che di fatto la accompagnano fin dal suo inizio (vedi Platone nel Teeteto). La sua, insomma, è una resa totale all’umiltà. Eppure quest’ultima si presenta nella forma di un orgoglio spocchioso che esso stesso non ha precedenti.

Un ottimo piano testuale per prendere atto di tutto questo è l’opera di Maurice Merleau-Ponty. Il pensatore francese infatti si dedicò ad un’opera di smantellamento totale dell’intero idealismo filosofico moderno, uno dei cui esiti fu la riconsiderazione davvero radicale del ruolo e del valore della Filosofia come atteggiamento verso l’«essere». La sua intera dottrina punta infatti a chiarire che quest’ultimo altro non è se non «mondo». E ciò significa porre in primo piano un contesto di atti esperienziali, nel quale ciò che più conta è l’elementare dimensione dell’«in-stare».

L’«in-» è insomma il prefisso che va anteposto a qualunque genere di postulazione delle presenze (cose) e degli atti che caratterizzano tanto i viventi quanto le morte cose. In altre parole assolutamente nulla può essere detto di essi, se prima non si tiene presente il mondo «nel» quale essi sussistono e si muovono. Quella del «mondo» – quale totalità nella quale soltanto è possibile l’essere – costituisce così la più fondamentale ed imprescindibile delle evidenze filosofiche.

E quindi essa supera di gran lunga l’evidenza costituita da qualunque genere di singolarità soggettuale (ente pensante) o oggettuale (cosa). Questa è insomma la davvero definitiva resa della Filosofia all’«esistenza» come la più primaria delle condizioni per l’essere. Per Merleau-Ponty ciò significa che tutto sussiste solo nella forma di quel «corpo» e «carne», che è poi lo stesso poter esistere solo sempre ed esclusivamente «in» un «mondo» pre-esistente e tutto includente e sorreggente. Ciò che così viene a dominare è la più soverchiante esteriorità dell’essere. Ma essa è un’esteriorità affatto «oggettuale», o anche «oggettiva» (come invece la più antica Scienza della Natura la concepiva).

Ebbene, per l’uomo comune, ciò è di un’ovvietà assolutamente sconcertante. Egli ha infatti sempre lasciato alla sola Filosofia la postulazione di «enti» (soggettuali o oggettuali). Per lui cioè era sempre «esistito» null’altro che il mondo nel quale sapeva bene di essere collocato in tutto e per tutto con il proprio esistere. Eppure sia l’idealismo che il realismo filosofico avevano sempre tenacemente resistito a tale ovvietà (considerata sempre fin troppo deplorevolmente «ingenua»), ostinandosi invece a concepire solo e soltanto delle singolarità soggettuali (idealismo) o oggettuali (realismo). Dunque è nello sposare di fatto questa ingenuità, che consiste l’attuale resa della Filosofia. E, se si considera l’inflessibile altezzosità delle sue precedenti prese di posizione (costanti in tutta la sua storia), si tratta di una resa davvero umiliante.

Eppure Merleau-Ponty ne teorizza la necessità in un modo che più esplicito non potrebbe essere. E lo fa nel portare a compimento la sua esposizione delle ragioni per considerare non più valido né l’idealismo né il realismo tradizionali. Proprio in tal modo il suo può essere considerato un «iper-realismo» – soprattutto in quanto considera effettivo solo un Reale (immanentistico-esistenziale), che soverchia qualunque genere di singolarità ontica. E così egli afferma a chiare lettere che la Filosofia non ha più alcun diritto di pretendere che l’essere possa e debba venire pensato prima ancora di venire colto nel pieno del vissuto. L’essere, insomma, non può essere affatto «pensato», ma ad esso bisogna invece solo essere incondizionatamente «aperti». Ma questo è esattamente quanto ha sempre fatto del tutto spontaneamente l’uomo comune.

Pertanto Merleau-Ponty sostiene di fatto che il filosofo deve finalmente rassegnarsi a pensare l’essere in primo luogo esattamente come fa l’uomo comune. Il che richiede la sua rassegnazione alla totale immersione nel mondo (ossia quello che per il filosofo è l’ingenuità stessa). Solo in secondo luogo, dunque, gli è permesso di pensarlo come invece effettivamente gli è proprio, e cioè appunto come realtà essenzialmente e primariamente «pensabile» (in un atto di «riflessione»). Il che poi per il filosofo implica che il pensiero di fatto genera le «cose» (singolarità), e quindi anche quel mondo che solo di esse è fatto. Ecco che il ruolo del filosofo (e della Filosofia) resta ancora. Ma solo nella forma di una radicale rinuncia. Essa consiste soprattutto nell’ammissione davvero sconsolante che l’essere non è affatto puramente pensabile, ma è invece definibile solo operativamente, ossia nel viverlo in pieno. Così insomma il «senso» del mondo (pensante) va definitivamente in soffitta. Mentre non resta altro che la «fede» cieca in esso (non pensante). E così perfino le sfumature etico-sentimentaliste del classico idealismo filosofico finiscono per perdere qualunque valore e senso, al cospetto dell’evidenza soverchiante di un mondo che effettivamente non si ha il diritto di considerare né buono (o bello) né cattivo (o brutto). Ma soprattutto non lo si può considerare come il tessuto prodotto dalla vita intellettuale che i soggetti condividono («inter-soggettività» o mondo quale Cultura).

Merleau-Ponty sostiene tutto questo proclamando che da ora in poi non è più il mondo a dover «comparire davanti» al filosofo, ma è invece proprio il filosofo a dover comparire davanti al mondo. Egli, insomma, prende atto dell’archiviazione definitiva della posizione filosofica in toto, e così proclama la fine stessa della Filosofia come pensiero del mondo. Ebbene, con tale ammissione la Filosofia è divenuta una mera sovrastruttura – e quindi in fondo solo retorica –, ossia un lusso al quale tutto sommato si potrebbe anche rinunciare. Ed è esattamente questo quanto è accaduto con il suo calarsi le braghe davanti all’ormai estremamente supponente ed aggressiva ultima Scienza naturale. Il realismo professato dalla Filosofia è infatti proprio quello che oggi viene affermato universalmente da una siffatta Scienza come l’unica ammissibile concezione dell’essere.

Bene! Il lettore che all’inizio avrà accolto con sollievo la tematizzazione di fatto dell’inutilità totale della Filosofia, si dichiarerà a questo punto senz’altro entusiasticamente d’accordo con le tesi di Merleau-Ponty. E inoltre ammirerà non poco la sua umiltà di pensatore. È però proprio qui che le cose divengono difficili e delicate. Perché come abbiamo visto, la Filosofia che qui depone il suo orgoglio di sempre (e per di più si ritira poi pateticamente sul verone della sua Torre d’Avorio), sancisce di fatto il trionfo di una Scienza che invece mai nutrirà gli stessi scrupoli nè sarà mai capace della stessa umiltà. E questa è proprio quella Scienza della quale Hans Jonas (Il principio responsabilità, Tecnica, medicina ed etica) ha dichiarato l’immensa pericolosità, proprio in quanto in essa il «sapere» serve del tutto ciecamente il «fare» tecnologico. Ossia quello che ha prodotto la Bomba, la catastrofe ecologica, l’ingegneria genetica. Ed ora si appresta ormai anche produrre cloni genetico-robotici dell’essere umano.

Dunque il mio personale consiglio è il seguente: – guardiamoci bene dall’accogliere entusiasticamente un iper-realismo come quello sostenuto da Merleau-Ponty di concerto con lo scenario nel quale ormai la Filosofia è rifluita nella Scienza! I rischi di tale accoglienza, infatti, possono andare ben oltre ciò che a noi moderni sembra lecito e perfino scontato sulla base dell’universale condivisione scontata della visione che sottende a tutto ciò. E ricordiamoci che Hannah Arendt (Responsabilità e giudizio) ha considerato come «totalitarismo» proprio questo cieco conformismo.

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