Elisa Bondavalli
Dietro le quinte della Mostra

I lager svizzeri

“Dove cadono le ombre” di Valentina Pedicini sul genocidio della comunità nomade Jenisch in Svizzera è un film pieno di buone intenzioni che finisce per annegare nella noia. E nella retorica

È già in uscito nelle sale cinematografiche il film Dove cadono le ombre di Valentina Pedicini, in concorso a Venezia per Le giornate degli autori. La regista riapre un piccolo ma spaventoso capitolo della nostra storia recente, sicuramente poco conosciuto: il genocidio, avvenuto nella vicina Svizzera, della comunità nomade Jenisch (terza per importanza dopo Rom e Sinti). Una tragedia durata 60 anni, dal 1926 al 1986, ad opera di una sedicente associazione filantropica, la Pro Juventute, che portò via 2000 bambini alle famiglie di appartenenza con l’intento di estirpare il fenomeno del nomadismo.

I bambini, strappati ai genitori, venivano rinchiusi in orfanotrofi che erano in realtà degli ospedali psichiatrici in cui erano sottoposti ad esperimenti scientifici di una brutalità seconda solo a quella di Mengele. Tra l’altro, proprio perché non potessero poi procreare una volta adulti, venivano tutti sterilizzati.

Il punto di vista che adotta la regista è quello di Anna (Federica Roselini), giovane donna di 24 anni, che porta ancora i segni di questa abominevole “casa di cura”. La struttura in cui ha trascorso la sua angosciosa infanzia ora è adibita a pensionato e lei vi è ritornata (tanto il condizionamento subito ancora agisce su di lei) a lavorarvi come fisioterapista per gli anziani. Un giorno arriva Gertrud (una sempre convincente Elena Cotta), il dottore che dirigeva gli esperimenti, che, all’epoca, mostrava una particolare attenzione per lo sviluppo psicofisico della bambina. Tra le due, naturalmente, si era instaurato, e resiste tutt’ora, un legame morboso odio-amore, vittima-carnefice. Ad aiutare Anna c’è poi Hans, un ragazzo ritardato a causa – se abbiamo capito bene – di una specie di lobotomia inflittagli da piccolo. Insomma, la Pedicini non si fa mancare proprio nulla. Anna poi è ossessionata dal ricordo dell’amica del cuore, Franziska, unico conforto umano in quel gelido lager, sparita misteriosamente. Convinta che sia stata eliminata e sepolta in giardino, costringe Hans, con cui riproduce la sola modalità “affettiva” che conosce, ovvero il rapporto dominatore-dominato, a scavare ossessivamente alla ricerca dei resti della bambina.

Il film, così, procede a tentoni tra un presente in cui abbondano le ovvietà (e un’insistenza visiva, che non si spiega in questo contesto, sulla decadenza dei corpi senili) e un passato troppo ellittico, dando l’impressione di una storia in cui regista e co-sceneggiatrice faticano a tenere in mano il bandolo. La visione, pertanto, risulta davvero faticosa (noiosa), aggravata da una regia che si sforza di essere distaccata (la regista nasce come documentarista), ma più volte si dimostra solamente inefficace e inadeguata. Come inadeguata è pure la recitazione della Rosellini. Anche la fotografia algida e asettica, in cui predominano i toni freddi del bianco e del blu dell’ambiente ospedaliero che dovrebbe comunicare e rafforzare il sentimento di gelo emotivo in cui è cresciuta la protagonista, manca lo scopo al punto che si fatica a credere che sia proprio di Vladan Radović, considerando le prove superlative cui ci aveva abituato.

Sicuramente lodevole l’intento di far conoscere una vicenda così terribile, a cui, peraltro, la Mostra del Cinema di Venezia ha potuto dare adeguato risalto, ma la Pedicini, purtroppo, ha finito per sprecare l’ottima occasione.

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