Alberto Fraccacreta
A proposito della raccolta «Tre»

Poesia senza verso

Esiste una poesia al di là dei versi? È possibile che essa si presenti in abito “non conforme alla cerimonia”? I versi del narratore cileno Roberto Bolaño dimostrano di sì (come tutta la tradizione di fine Novecento)

Sognare è l’altra faccia della vita. Nel sogno accadono connessioni impossibili nella realtà o passibili di una realtà ulteriore. Il sogno è una protesi dell’esistenza, concessa per far camminare speranze mutilate; rappresenta forse il costituente estremo della poesia e della letteratura. D’altronde l’analisi chimico-organica del sogno parla chiaro: una miscela di desiderio fluido e microparticelle di rimorsi e volontà d’unione. Non si può scrivere se non per un sogno. Ed è anche vero il contrario: non si può sognare se non per scrivere e lasciarsi scrivere. L’attività onirica – che accada da svegli o nelle braccia di Morfeo – rivela sempre una crepa profonda. «Un sogno fatto due volte è un bisogno» recita la saggezza on the street delle frasi scritte sui muri. Roberto Bolaño aveva chiaro questo concetto quando compose Una passeggiata nella letteratura, l’ultimo dei poemi di Tre (Sur, traduzione di Ilide Carmignani, pp. 197, euro 16,50), sorprendente silloge dell’autore cileno, impostosi all’attenzione mondiale per i suoi romanzi infrarealisti, “realviscerali” (com’è detto in Detective selvaggi), oggetto di un’autentica idolatria di pubblico.

«Ho sognato che ero un detective latinoamericano molto vecchio. Vivevo a New York e Mark Twain mi ingaggiava per salvare la vita a uno che non aveva volto. Sarà un caso maledettamente difficile, signor Twain, gli dicevo». Poème en prose ricco di riferimenti intertestuali, molto lontano da Le Spleen de Paris ma con eguale stizza emotiva, la passeggiata di Bolaño mette in questione un dilemma estetico di non poco conto: esiste una poesia al di là dei versi? È possibile che la poesia si presenti oltre la facies ordinaria, in abito non conforme alla cerimonia? Rivelatrice è una dichiarazione dello stesso scrittore in merito al suo mestiere letterario: «Sono fondamentalmente un poeta. Ho iniziato come poeta e ho sempre creduto che scrivere prosa sia di cattivo gusto». Alcune figure presenti in questa epopea suburbana, a tratti tropicale, rivelano quantomeno l’esigenza di “allargare” il respiro nelle atmosfere sbiadite dell’immaginazione, rendendo disperatamente lirico il prosaico. Con una sola controindicazione: per forza del rigo lungo. «Ho sognato che traducevo Virgilio con una pietra. Ero nudo su una grande lastra di basalto e il sole, come dicono i piloti dei caccia, fluttuava pericolosamente a ore cinque».

È proprio l’immagine – per così dire, il senso di poesia – a trionfare definitivamente sulla metrica e sulla verticalizzazione della pagina. C’è appunto uno spostamento orizzontale, in Bolaño un po’ brusco e volutamente privo di mediazione, che coincide a ben vedere con la moderna “nostalgia del poema”, l’impossibilità cioè di narrare il tutto delle cose. E tale nostalgia è supplita spesso dal saggio con intento poetico (si pensi alla florida tradizione mitteleuropea) o dalla stesura di brandelli elegiaco-narrativi (tipici della scioltezza americana immune da qualsivoglia forma di petrarchismo). Non è forse questa la lezione di grandissimi autori ancora attivi nello scampolo finale di Novecento? Derek Walcott, Adam Zagajewski, Tony Harrison, non ultimo il nostro Mario Luzi che proprio nella fase conclusiva della sua opera riesumò l’idea del poema incessante e frammentario.

Bolaño, in netta opposizione all’alta concentrazione lirica e alla distillazione stilistica di Valéry, prosegue il discorso, tutto sudamericano, di inglobare nella parola l’intera ampiezza del reale (anche quanto la teoresi consideri “impoetico”), non dimenticando relazioni e nessi con una presenza nuova, inattesa. «La poesia sintetizza numerosi tratti della narrativa di Bolaño: l’immagine visionaria, la pulsione epifanica, l’irruzione dell’onirico, l’estetizzazione della vita, la mitizzazione del ricordo», suggerisce Andrés Neuman nell’introduzione al volume. A preparare questo sfondo sono occupate le prime due sezioni di Tre, ovvero Prosa dell’autunno a Girona, organizzata in 35 frammenti sulla condizione di estraneità, incertezza del lavoro e mancanza (molto autobiografica) di denaro, e I Neochilenos, epica “sporca”, road story in versi, nella quale è raccontato il viaggio di una vecchia rock-band in paesi sperduti dell’America Latina. La tensione alla volgarizzazione del linguaggio con termini forti e a volte al di fuori del normale rigore espressivo, rimanda per negazione ad un’indisposizione psichica dalla quale i letterati non sono ancora guariti: il desiderio di una lingua pura, perfetta, incontaminata. Disse Paul Celan: «Il poema tende a un Altro». L’infermità linguistica di Bolaño, la sua ossessione borgesiana di piegare il racconto al lirismo (e non viceversa), la voglia pervicace di raffigurare il punto in cui deserto e distruzione crescano oltre l’errore, sono il sintomo più evidente della distanza che ci divide da questo Altro, della carenza che esige pienezza «là dove morde l’arsura e la desolazione», come recita un celebre verso montaliano. Qui il sogno è interrotto.

Dire che la poesia odierna vada verso la prosa è errato. È la prosa che va verso la poesia – come l’innamorato va sempre verso la sua amata –, o meglio a cercare in sé le ragioni della poesia.

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