Giuliana Vitali
Ancora a proposito di "Sacrificio"

All’inferno (e ritorno)

Nel nuovo romanzo di Andrea Carraro Lou Reed va a braccetto con Luis Buñuel, Stephen King con Hieronymus Bosch. Insomma, la realtà coincide con il suo contrario

«Il male non nasce, se completamente sganciato dal bene. A meno che non ci sia un fatto patologico. Racconto anche, nelle mie storie, fatti patologici, ma mi interessa molto di più quando la normalità deraglia», afferma lo scrittore Andrea Carraro in un’intervista sul giornale “La Città” di Teramo. Nel suo nuovo romanzo Sacrificio (Castelvecchi ed., 168 pp, € 17,50, di cui ha già parlato, qui su Succedeoggi, Nicola Fano, clicca qui per leggere l’articolo), c’è una contaminazione di generi che va dal più puro realismo all’onirico; è come infilarsi nella realtà alchemica e animalesca nel Trittico delle delizie di Bosch in cui il Male – connaturato all’uomo – prende i tratti del mostruoso e dell’infernale.

Il protagonista Giorgio, fa l’editor presso una piccola casa editrice, è separato e ha una figlia eroinomane che tenterà di salvare fino alle estreme conseguenze: «L’eroina era la sua droga. L’unica che riuscisse ad annullare per qualche ora il tormento che le si era istallato nell’anima. Qualcuno ha detto che quando si assaggia l’eroina, tutte le altre droghe si dimenticano perché l’eroina parla con l’anima!. Ed è proprio l’anima, intesa come la parte più profonda e nascosta della psiche, che Giorgio sacrificherà facendo un tacito patto con il diavolo Calibano – di memoria shakespeariana – e iniziando anche lui a bucarsi per amore – comprerà dallo spacciatore della figlia le dosi che sarebbero state destinate a lei – ma anche trasportato dal senso di colpa con la convinzione di non essere stato un buon padre. Come nel Faust di Goethe lo scienziato si affida alla magia perché gli possa essere rivelata la Verità lì dove la scienza non arriva, Giorgio si consegna al demonio – non avendo trovato risposte appaganti nella religione – non solo per cercare di salvare la figlia ma anche per indagare le cause stesse del Male, la sua origine. «Io non so dove sto andando/ Ma ci riuscirò a raggiungere il Regno se posso/ Perché io mi sento un vero uomo/ Quando mi infilo l’ago in vena (…)», canta Lou Reed mentre Giorgio si spara una dose di eroina in macchina.

Diverse pagine del libro sono dedicate alla figura geniale e controversa dell’artista: le sue opere diventano un “inferno musicale” che si fa tormento per l’anima, proprio come in quel quadro di Bosch, dove gli strumenti musicali rappresentati sono macchine da tortura. Nel racconto, il demonio si rivela più volte a Giorgio e in diverse forme; una notte, per esempio, mentre in preda alla disperazione prega davanti a un’edicola della Madonna perché lo aiuti con la figlia, si avvicina un uomo in tight che «ha l’odore di sesso appena consumato», «di un animale in calore» che fissandolo con occhi strani, lo schernisce ripetendo che le preghiere sono inutili. Una scena dal sapore dostoevskijano quando nel finale de Il sosia il protagonista Goljadkin incrocia nel buio gli occhi scintillanti, infernali di un altro sé mentre la carrozza con i cavalli lo porta chissà dove. L’esoterico, il fantastico, come in un film di Bergman o in un racconto di Stephen King, rappresentano l’incubo, la psiche umana che diventano necessari alla narrazione realista dell’autore che si muove tra sogno e allucinazione provocati dall’uso di eroina da parte del protagonista. Infatti, il tempo narrativo del racconto si dilata in un ulteriore tempo psicologico in cui i personaggi sembrano prigionieri delle loro fragilità, insicurezze, delle loro anime sofferenti come per i personaggi nella stanza d’albergo nell’inferno di Sartre della pièce teatrale Porta chiusa dove alla fine si scoprirà che la porta dalla quale poter fuggire, era sempre stata aperta. C’è una scena in particolare che diventa rivelatrice: Giorgio è a una festa del suo vecchio amico Goffredo e ha tirato qualche striscia di cocaina; comincia a sentirsi male e ad avere delle allucinazioni vedendo gli invitati che prendono sembianze animalesche. Un’atmosfera surrealista come quella di Buñuel ne L’angelo sterminatore in cui gli ospiti della festa restano paralizzati, bloccati in casa tra orsi e pecore che gli passano davanti, senza riuscire ad andare via.

C’è qualcosa di familiare che ritorna nella narrazione come i personaggi di Goffredo, Gigi, luoghi come il bar Paris e la periferia romana raccontati nel romanzo precedente Come fratelli (Barbera Edizioni). Anche l’utilizzo del fantastico non è cosa nuova per l’autore; penso all’ultimo capitolo dello stesso libro in cui si racconta della seduta spiritica organizzata dagli amici del defunto Dario per evocarlo dall’aldilà e a un certo punto pare davvero che si senta la sua voce riecheggiare tra le risate dei ragazzi. Anche con L’erba cattiva del 1996, ripubblicato da poco dalla casa editrice “Il seme bianco”, si stabilisce un continuum con il romanzo precedente; infatti proprio nelle ultime righe viene citato Raniero, protagonista de Il branco come a voler rimarcare il carattere unitario degli scritti di Carraro dove i temi della violenza, del bene e il male, del fallimento, della colpa, del rapporto padre-figlio si ripetono attraverso storie raccontante per mezzo di una attenta ricerca stilistica: infatti nella scrittura precisa, dettagliata e asciutta, realismo e visione si incontrano nel più lucido equilibrio.

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