Pasquale Di Palmo
La voce del poeta: Gabriella Sica

Le mani e la parola

I poeti in questi anni - dice l’autrice di “Le lacrime delle cose” - non hanno fatto altro che sostenere quello che era sull’orlo del baratro. E la sua raccolta lo dimostra: è una professione di fede nella poesia che «esisterà finché resterà anche un solo uomo»…

2Gabriella Sica, nata a Viterbo e residente a Roma, ha al suo attivo varie raccolte poetiche: La famosa vita (1986), Vicolo del Bologna (1992), Poesie bambine (1997) e Poesie familiari (2001). Tradotta in diverse lingue, ha pubblicato vari saggi e diretto la rivista “Prato Pagano” negli anni Ottanta. L’ultima sua silloge poetica si intitola Le lacrime delle cose (176 pagine, 11 euro), edita nel 2009 da Moretti & Vitali, con una postfazione di Paolo Lagazzi che osserva come la pronuncia della Sica si distingua «per la qualità quieta e tersa delle immagini, per il riverbero discreto e intenso delle emozioni, per la necessità intima del suo rapporto con lo spazio e col tempo».

Può parlarci della sua ultima raccolta, Le lacrime delle cose?
È il libro del nuovo dolore degli anni zero, un dolore storico aperto dall’Undici settembre che è coinciso per me, proprio negli stessi giorni, con il dolore privato per la fine della famiglia. Il trauma è stato storico e psichico e inevitabilmente, per me, è diventato male fisico, malattia. Gli anni del nuovo secolo sono una riabilitazione da questo trauma, per riprendere un bel titolo di Zanzotto, Eterna riabilitazione da un trauma di cui s’ignora la natura, uscito infatti nel 2007. Le lacrime delle cose, uscito nel 2009, abbraccia un’età del terrore, che ho provato a rammendare. Tutto quello che scrivo è per me un rammendo. Ogni poesia è la ricucitura di uno strappo. La varietà tematica (potrei definire questo come il libro dello sconquasso e delle macerie) è anche una varietà metrica con escursioni ampie, dalle poesie brevi, forse mottetti, alla poesia larga, che fugge dall’endecasillabo. Un libro instabile anche dal punto di vista metrico, oltre che emotivo e storico. Le cose piangono come gli uomini. Il titolo virgiliano allude alla poesia come congedo dal passato, addio e separazione (per esempio quella tra Didone e Enea). Il trauma è storico ma la poesia nasce dal pensiero interiore dell’autore e dall’esperienza. La storia è il coro tragico al dolore privato. Da questo nasce la poesia.

Il suo ultimo libro in prosa è dedicato all’Europa. Perché questa scelta?
Intanto la prosa è l’altro polo di un perpetuo oscillare tra poesia e prosa che mi ha sempre toccata. Ho passato anche molto tempo senza la prosa, in nome della poesia, ma poi a lei sono sempre tornata. Dal 2009 scrivere in prosa è stata non più una tentazione ma una fuga dal pubblicare un libro di poesia. Ho voluto distrarmi e scrivere, di Emily e le Altre e di Europa, che è il continente in cui siamo nati e vissuti. C’è sempre nella mia scrittura un luogo dove lo spazio si trasforma in tempo.

Qual è, secondo lei, la situazione della poesia in Italia?
I poeti hanno avuto in questi anni grandi mani con cui hanno sorretto una parola, una casa, un’idea sul punto di sparire. O l’invisibile, il passato, e naturalmente la lingua. Non hanno fatto altro che sostenere quello che era sull’orlo del baratro, con grande cura e mitezza. Sono due parole che ora amo molto, la cura e la mitezza, che fanno parte della mia vita. La cura è venuta da sé, la mitezza ho dovuto impararla. Ci vuole forza e libertà, e di più in questa età che non è per niente saggia, a essere miti (mitis è il frutto maturo), in un certo senso a farsi concavi. Del resto è una necessità per rispondere all’aggressività dei nostri anni, strisciante e silenziosa, in un mondo che non sembra più offrire riparo. Tutto questo gran lavoro dei poeti, che sono rimasti fedeli alla poesia quando questa è stata sotto attacco su tutti i fronti, non credo che sia stato inutile.
La poesia esisterà finché resterà anche un solo uomo. Ci sono incontri di poesia affollati. Il pubblico c’è, forse ama ascoltare più che leggere, e bisognerà pure prenderne atto. L’oralità della poesia è una questione antica che bisogna ripensare. Ho constatato che finalmente le Università stanno aprendo le aule alla poesia contemporanea, che si comincia a leggere e studiare, e agli stessi poeti. Per i giovani ascoltare un poeta è una scoperta assoluta. Per caso mi è da poco capitato tra le mani un articolo di Pasolini in cui invita a leggere i poeti del proprio tempo. Un invito quanto mai attuale.

Cosa pensa della diffusione della poesia nel web?
Non può che fare bene alla poesia. Mi sono ritrovata in antologie straniere a mia insaputa. Penso che sia un meraviglioso strumento a nostra disposizione, che non sostituisce però le relazioni umane. Ora è un grande mare dove tutto si confonde, e ogni onda viene coperta da un’altra onda. Una ricchezza e una confusione insieme. Mi riferisco soprattutto a fb, una vetrina affascinante per chiunque ma anche morbosa che è alla fine uno spietato rubatempo, divertente ma anche inerte, dove non si sente mai una scossa se non di violenza, e dove di fatto non nasce e non cresce niente. C’è molto bisogno di pudore e discrezione, di non essere invadenti. E resisto all’idea di pubblicare le mie poesie su fb, cosa che faccio raramente, forse sbagliando.

Quali sono gli autori classici che ammira di più?
Ho già detto del sempre amato Virgilio. E poi Catullo, Ovidio e Orazio. Non si possono però amare i poeti latini senza i greci. L’Iliade è l’architrave della poesia antica (c’è già tutto: i conflitti, le passioni, l’ingiustizia) e poi ci sono i lirici greci, a cominciare da Saffo. Naturalmente non posso non amarli anche attraverso la tradizione italiana, da Petrarca, “di nuovo in vista” nella mia generazione, a Leopardi. Non si può comunque amare solo i classici, non sentirli risuonare nei versi più recenti e non solo italiani.

Cosa sta preparando attualmente?
Parlavo prima di instabilità. Ecco, l’instabilità che stiamo vivendo è anche editoriale e si ripercuote sull’instabilità del libro come oggetto. In tanti modi. Per esempio modificando la forma del libro stesso. Sarà che preferisco scrivere più che affrontare la fatica di un nuovo libro, anche se nel cassetto del computer ho più libri da pubblicare. C’è stato chi mi ha rimproverato il mio essere, editorialmente parlando, una nomade, ma per me è stata anche una questione di libertà. Chissà che nel mio profondo non agisca qualche istinto a ritrarmi, simile a quello che a volte ci porta a sfuggire l’amore, per allungare il tempo della vita. O sarà che ormai la sottrazione è l’unica arma a disposizione, sottrarsi un po’ alla generale furia a esserci.

Può ricordarci la figura di Beppe Salvia?
Beppe Salvia ha partecipato al clima di rinnovamento nella poesia che c’è stato a Roma negli anni Ottanta. Ha scritto poche poesie, come del resto pure Leopardi, ma straordinarie per sapienza metrica e umana. Il suo primo libro, Estate di Elisa Sansovino, l’ho ricevuto dalle sue mani e pubblicato nei “Quaderni di Prato pagano” e anche una parte di Cuore è nata sulle pagine di “Prato pagano”, a cui ha partecipato fin dai suoi inizi. Se n’è andato presto ma il suo spirito continua a distanza di decenni ad aleggiare nell’aria e piace molto ai giovani, come ho potuto constatare. Recentemente “Spiragli” ha promosso a Potenza, sua città natale, un convegno e annunciato un premio a ottobre, in coincidenza dell’anniversario della nascita.
Il tema dei Poeti amici a Roma che non ci sono più mi accompagna da tanto, quelli che hanno partecipato a “Prato pagano” (oltre a Salvia Pietro Tripodo), e quelli che sono stati semplicemente amici, come Bellezza, Rosselli e Zeichen. Una Roma sparita che ci fa piangere. La poesia è per me la lingua materna, e i poeti che ho frequentato e sono scomparsi sono figure di maternità, a cui porto devozione e rispetto. In un certo senso accentua il mio senso di responsabilità verso la loro poesia, accresce una certa mia inclinazione a essere testimone di quanto ho visto.

Può commentare la poesia inedita presentata?
Una poesia semplice e breve di un anno fa, in cui sogno un mondo dove si legge, dove torna la primavera (che è la mia stagione preferita, fin dalle prime poesie) e si apre una nuova luce.

***

Oh, rivedessimo uomini solitari

leggere come umani un libro

e solcare filari d’oro

per una verde vigna o l’orto

e tornasse a occidente la primavera

quella luce a sera luminescente

quel cielo rosaceleste.

Gabriella Sica
(foto © Dino Ignani)

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