Raoul Precht
Periscopio (globale)

I consigli della baronessa

L'Italia «non ebbe per lo più altra gloria, o altri piaceri, o altre consolazioni se non quelle che dava l’ingegno»: a duecento anni dalla morte, vale la pena seguire i consigli di Madame de Staël

«Trasportare da una ad altra favella le opere eccellenti dell’umano ingegno è il maggior benefizio che far si possa alle lettere; perché sono sì poche le opere perfette, e la invenzione in qualunque genere è tanto rara, che se ciascuna delle nazioni moderne volesse appagarsi delle ricchezze sue proprie, sarebbe ognor povera: e il commercio de’ pensieri è quello che ha più sicuro profitto». Così Anne Louise Germaine de Staël-Holstein nel breve saggio Sulla maniera e la utilità delle Traduzioni, tradotto in italiano, appena uscito, da Pietro Giordani, e subito pubblicato nella Biblioteca italiana il 1° gennaio del 1816, tanto per alimentare e rinfocolare la discussione polemica fra classicisti e romantici. Continuava infatti Madame de Staël, prendendo decisamente le parti di questi ultimi: «Dovrebbero a mio avviso gl’Italiani tradurre diligentemente assai delle recenti poesie inglesi e tedesche; onde mostrare qualche novità a’ loro cittadini, i quali per lo più stanno contenti all’antica mitologia: né pensano che quelle favole sono da un pezzo anticate, anzi il resto d’Europa le ha già abbandonate e dimentiche». Classicisti statici e ripetitivi, ma soprattutto chiusi a coltivare il loro orticello, insomma, versus romantici aperti a quanto di nuovo si andava facendo (e scrivendo) al di là delle frontiere nazionali.

Le cose non stavano esattamente così, e la distinzione non era poi tanto semplice: prova ne sia il fatto che a tradurre il testo sarà un classicista come Pietro Giordani, già maestro e ispiratore di Leopardi, e che poi tre mesi dopo lo stesso Giordani scriverà un articolo di risposta, in cui in pratica sancisce la superiorità dei poeti greci e latini, ai quali gli italiani da sempre s’ispirano, su quelli degli altri paesi europei. Peccato che all’epoca Giordani non avesse ancora letto Shakespeare; lo farà un anno dopo, ammorbidendo le sue posizioni e riconoscendo degli elementi di estrema novità nel linguaggio e nel mondo drammatico del Bardo.

Madame de Staël sarebbe morta poco dopo, il 14 luglio 1817, giusto duecent’anni fa, ad appena cinquantun anni, ma le sue incursioni nella cultura europea hanno lasciato il segno: non solo nell’acuirsi della dicotomia fra classicismo e romanticismo, ma anche nell’aperta e precoce rivendicazione di una letteratura europea che prescindesse dai confini folclorici, culturali e linguistici. La sua stessa caduta in disgrazia presso Napoleone va messa in stretta relazione con le idee, considerate all’epoca pericolose e sovversive, da lei propugnate ad esempio in De l’Allemagne, del 1810, in cui, in seguito a un lungo viaggio per la Germania, a uno stanco classicismo di derivazione greco-latina arenatosi nei paesi del Mediterraneo avrebbe contrapposto l’agitato e dinamico romanticismo, quale frutto del mondo cavalleresco della cristianità dell’Europa del Nord, intervenendo a favore di una concezione inclusiva e non esclusiva della cultura. L’apertura al mondo storico, leggendario e mitologico della varie nazioni europee era stata già anticipata del resto in De la littérature, del 1803, che la vedeva mettere in discussione regole e divieti a cui a suo parere occorreva invece sfuggire se si volevano produrre opere d’arte degne di questo nome.

Ma, tornando a De l’Allemagne, quello che più aveva colpito i lettori di allora era certamente la denuncia del fallimento della rivoluzione quale elemento di deviazione dalla storia nonché la critica serrata del bonapartismo che l’opera conteneva. Il nemico personale e politico Napoleone, è stato detto, è in realtà all’origine di tutte le grandi opere della baronessa, le ha quanto meno provocate: Corinne, De l’Allemagne e Dix années d’exil non avrebbero probabilmente visto la luce senza la virulenta ostilità, gli ostacoli frapposti e infine il lungo esilio, appunto, al quale Madame de Staël fu condannata dal dittatore. Il quale non si accontentò d’ignorare il visto della censura e di far bruciare le cinquemila copie già stampate di De l’Allemagne, facendo fallire implicitamente il povero editore, ma costrinse la baronessa, dopo averla allontanata già nel 1803 da Parigi – tra lei e la capitale dovevano esserci sempre almeno centocinquanta chilometri di distanza! –, a restare reclusa nel suo castello. Una condizione, questa, che la scrittrice e polemista non poteva proprio accettare, in quanto in conflitto con la stessa idea di libertà che ne permeava tutta l’opera. (Per inciso, De l’Allemagne uscirà nel 1813 in Inghilterra, grazie a una copia trafugata a Vienna dal fido Wilhelm Schlegel.)

Di qui poi la fuga, il lungo soggiorno in Svizzera, prima nel castello avito di Coppet, in seguito a Ginevra, l’attraversamento dell’Europa in guerra, il tentativo di raggiungere l’Inghilterra, ma attraverso permanenze più o meno prolungate in Germania, nell’Impero austroungarico, in Svezia, in Russia, quale apostolo, a tratti ingenuo, di una politica paneuropea liberale e di resistenza al tiranno, mostro che in passato, a voler essere precisi, la baronessa aveva pur apprezzato e cercato di sedurre sul piano intellettuale. Anche le Considérations sur la Révolution française, scritte tra il 1812 e il 1813, nel prendere le mosse dalla figura del padre, Jacques Necker, già ministro delle Finanze di Luigi XVI e riformista roussoviano, esprimono tutto il disincanto di chi ha ben compreso e assorbito, pur senza sempre condividerli, i principi della rivoluzione e che li vede comunque traditi, prima dall’avvento del Terrore e dalle derive della rivoluzione stessa, poi da una brutale restaurazione.

A Parigi, la baronessa potrà rimettere piede solo nella primavera del 1814, quando sosterrà Luigi XVIII, e non vi si installerà che alla fine del 1816, dopo i Cento giorni, l’ultimo colpo di coda di Napoleone, e la definitiva deportazione a Sant’Elena. Nel febbraio dell’anno successivo, però, resterà improvvisamente paralizzata durante una soirée; sarà il preludio della fine.

Impetuosa, irascibile, incapace di diplomazia, mangiatrice d’uomini, non le mancava, peraltro, quel meraviglioso dono ch’è l’ironia. «Gl’Italiani – aggiunge la baronessa verso la fine del saggio citato poc’anzi – ammirano e amano straordinariamente la loro lingua, che fu nobilitata da scrittori sommi: oltreché la nazione italiana non ebbe per lo più altra gloria, o altri piaceri, o altre consolazioni se non quelle che dava l’ingegno». E allora ammettiamolo pure: la lingua è rimasta, e sebbene a volte imbastardita e utilizzata a sproposito, continua a darci piacere; scrittori sommi forse al momento non ce ne sono tanti, ma, da lettori saggi, tendiamo ad accontentarci; quanto al resto, cara Madame de Staël, temo proprio che abbiate avuto ragione voi, a due secoli di distanza non è che sia cambiato granché…

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