Arturo Belluardo
Una narratrice da seguire

Racconti dal tormento

Elogio di Giulia Caminito: con il romanzo “La Grande A” e i racconti di “Guardavamo gli altri ballare il tango” sceglie di raffreddare il disagio, cagliandolo in creature d’angoscia

Giulia Caminito è una spiga. Alta alta, sulle sue “gambette secche” come steli e piena di chicchi preziosi in alto. E se per caso il vento la piega, questa spiga, allora lancia i suoi chicchi, le sue parole, come fossero mitraglia: inanella sinonimi, metafore, accosta suggestioni e immagini. Ti travolge con le sue costellazioni di termini che più che definire, alludono ad altre realtà, ad altre storie. «Allora Evelina iniziò a levare, togliere il possibile da lì, tenne solo le cose che potevano farle ribrezzo, scarti contusi, erbacce stinte, pappe insapori, levò il latte soprattutto, i bambini ne vanno ghiotti. Sul post-it dei buoni propositi: basta scrittori in crisi di mezza età, coi figli e le mogli, basta con il latte». Così Giulia Caminito ne La bambina, uno dei tre racconti che compongono la raccoltina Guardavamo gli altri ballare il tango, appena uscita per Elliot: accumuli di parole, accumuli di storie.

Come per accumulo di memorie ha costruito il suo romanzo, La Grande A (edito da Giunti), estraendo con uncino chirurgico le storie della nonna materna e della sua avventura nell’Africa Orientale nel Secondo Dopoguerra: storie di una colonia “defascistizzata” e per questo destinata al disfacimento, con figure residuali di italiani chiuse nei loro bozzoli di passato, destinate a eterni balli di fantasmi al “Circolo Juventus” di Addis Abeba. E queste storie, questi valzer e questi tanghi si possono solo guardare a distanza.

giulia caminitoCome ci viene detto nel racconto che dà il titolo alla raccolta, Guardavamo gli altri ballare il tango: «Agnese osservava con partecipazione crescente i movimenti dei ballerini, il loro essere insieme ma sempre distanti, quel tanto che (…) rendeva possibile l’immaginazione». È la distanza dei ballerini, la distanza di Agnese e Leo dai ballerini, la distanza di Agnese da Leo a creare la storia, la sorgente da cui scaturiscono le parole. La distanza che la ventinovenne Caminito frappone fra sé e il testo, colpendolo con contrasti come fosse un sacco d’allenamento dei pugili; sceglie di raffreddare il disagio, cagliandolo in creature d’angoscia: ché è questo il leit-motiv oscuro della raccolta, il cordone ombelicale di tormento che unisce i racconti. Che sia dunque Leo mutato in Agnese a incarnare il tedio esistenziale della coppia, che siano una ragazza e una pianta a far prorompere il fuoco dei ricordi, che sia una bambina, infine, a crescere e svilupparsi come gonfio tumore. Come la depressione fatta persona di Jeanette Winterson in “Perché essere felice quando puoi essere normale?”.

Le parole di Giulia Caminito si srotolano in paesaggi desolati dove «la luna calava distratta su cancelli e balconate, gli alberi di ciliegie non erano in fiore e lungo i muri si percepiva ben distinto l’olezzo dell’immondizia accumulata». Arriva soltanto lo gnaulìo lontano del bandoneon a squarciare il velo della polvere: ma il tango lo si può soltanto spiare, non si può danzare. E d’altra parte, chi ha nel cognome il più celebrato tango di Gardel, quel Caminito immortalato persino in una lapide della Boca, non può che fermarsi lì, un attimo prima, sulla soglia. E sulla soglia la salutiamo con il suo incipit, di ineffabile precisione: «Leo era una persona crudele, non in senso assoluto, ma contingente».

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Accanto al titolo, Juarez Machado, “O último tango”, 1941

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