Andrea Carraro
Su “La truffa come una delle belle arti”

Estetica della truffa

Gianluca Barbera confeziona un bel romanzo in stile settecentesco, pervaso da ironia amara e visionarietà quasi filosofica: la storia di una stirpe di truffatori per scelta... etica

Che cosa mi è piaciuto nel nuovo romanzo di Gianluca Barbera La truffa come una delle belle arti (Aliberti compagnia editoriale, pp. 217, 17 euro)? Parecchie cose. Anzitutto l’ironia che lo pervade e lo innerva. Lo ha scritto benissimo anche Caterini recensendo il libro. Poi, immediatamente dopo, la lingua. Una lingua camaleontica, enciclopedica, duttile, capace di muoversi con disinvoltura fra diversi registri (anche specialistici) – dentro la macrostruttura del pastiche postmoderno: intrecciando romanzo comico, romanzo storico d’avventura di impronta settecentesca alla Sterne, alla Thackeray, alla Swift, romanzo filosofico alla Diderot (come suggerisce Giulio Mozzi nella breve ma efficacissima bandella – e lo stesso autore in qualche intervista), falso ritratto documentario satirico alla Zelig di Woody Allen e di chissà quanti altri esempi letterari e cinematografici nell’ambito delle biografie contraffatte. Il tema però è quello, tipicamente italiano, della maschera, del travestimento, della simulazione, della truffa elevate a ideologia e stile di vita, trasmessa nei geni a una dinastia di truffatori. Dunque qualcosa che ci appartiene, come italiani, profondamente, qualcosa che abbiamo nei nostri cromosomi, come portato della nostra storia di popolo dominato per secoli, frammentato, avvezzo all’arte di arrangiarsi in tutti gli strati sociali (non solo a chi è costretto a “arrangiarsi” per sopravvivere), a fregare lo stato perché non lo si sente proprio, perché imposto dall’alto, perché usurpatore (si veda il magistrale ritratto di re Ferdinando a questo proposito).

Nel romanzo di Barbera c’è un uomo – Carl Lopiccolo – che racconta a un ascoltatore muto (eccetto alla fine del racconto), una saga familiare, quella della sua famiglia, per la realizzazione di un romanzo biografico che gli ha commissionato. La storia picaresca e avventurosa, strampalata e comica di Barbera parte dal bisnonno Pepè, un geniale imbonitore da circo e inventore (e molto altro), arrivando a Carl medesimo, colui che racconta (con un breve accenno anche al figlio di Carl, anch’egli già inguaiato, come i suoi antenati, con la giustizia dai piedi alla radice dei capelli, anch’egli già passato nelle maglie delle patrie galere o comunque in procinto di passarci). Carl è un cinico nel suo relativismo, ma è anche a suo modo idealista e romantico, pieno di risorse, spregiudicato e colto, un po’ scienziato, un po’ speculatore, un po’ filosofo, sempre a caccia di qualcuno da gabbare, da truffare, da raggirare. Alla fine ruberà perfino i pochi contanti nel portafoglio del biografo (da lui stesso pagato – gesto quindi del tutto svincolato da questioni utilitaristiche), dopo l’ultima seduta.

la truffa come una delle belle artiIn qualche momento il romanzo di Barbera pare quasi un’opera buffa per la sua vocazione alla farsa, all’aneddoto comico, al grottesco, non di rado induce al riso. Ma in realtà lo scrittore toscano affronta una questione (filosofica, morale) molto seria, ribadita in numerosi aforismi e chiose nel corso della narrazione, tipo: “Il vero ha dei limiti naturali, il falso è senza confini”, oppure: “si è onesti per necessità. Se invochiamo la giustizia è solo per invidia, per spirito di vendetta. Si vuole ridurre tutto a un gioco tra guardie e ladri, quando in ballo c’è molto di più. La vera guerra è tra liberi e schiavi”. Gli eroi – Carl, Jonathan, Pepé… – di questa genealogia si muovono con spregiudicatezza e talento nelle rispettive epoche storiche, rese con precisione nei dettagli, nei riferimenti, nei linguaggi (anche dialettali, anche specialistici su diversi fronti del sapere come si è detto), nella scelta degli aneddoti, nel disegno cristallino dei caratteri dei personaggi: “Mio nonno per l’occasione indossava una uniforme turchese coi gradi alla greca sulle controspalline e un berretto rigido da ammiraglio di flottiglia, passò in rivista l’equipaggio schierato su due lati non risparmiando rimbrotti.”

Berbera costeggia, si diceva, la forma-romanzo settecentesca inglese, sempre assai attenta ai rapporti (conflitti) sociali, satirica, avventurosa, rocambolesca, romantica o preromantica: tipo Le memorie di Barry Lyndon di Tackeray (recentemente ristampato da Fazi), per intendersi, da cui è stato tratto il capolavoro Barry Lyndon di Kubrick. Ma in certi momenti mi ha fatto pensare pure a Zelig, per l’uso della forma-inchiesta cine-giornalistica declinata in chiave comico-paradossale, come in questo passaggio ancora sul nonno Jonathan: “…O come la mattina in cui si svegliò sostenendo di essere Walt Whitman, il poeta, benché fra i due corressero parecchi anni di differenza; e in quei panni, per quasi un mese, tenne conferenze e reading non solo a Londra…”

In certi momenti si ha quasi l’impressione che i vari personaggi della saga diano vita a un unico eroe leggendario e metastorico: un uomo assetato di sapere e di avventura, abilissimo e privo di scrupoli nel manipolare uomini e istituzioni e saperi, attratto dal Male non per una metafisica e diabolica inclinazione; piuttosto per spirito di adattamento e per una vocazione dello spirito, sorretti ambedue dalla convinzione che nel mondo regni il caos e l’ipocrisia, che il male sia il pane quotidiano anche dei molti che non esercitano il malaffare e non evadono la legge, che in un mondo simile non possa non nascere, per selezione naturale, come “uomo nuovo”, un truffatore sapiente e dalla fibra robusta, capace di risollevarsi da qualunque calamità. Il libro, dice l’autore in un’intervista, si può leggere anche come romanzo filosofico sulla “ricerca della felicità”. Ovvero, cerca di rispondere alla seguente rischiosissima domanda: fino a dove può spingersi un uomo nella ricerca della felicità?

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