Pasquale Di Palmo
La voce del poeta: Fabio Franzin

L’etica delle mani è verde e azzurra

Canta il lavoro onesto degli umili che ancora hanno un’anima il poeta-operaio di Motta di Livenza. E canta la natura che con i suoi colori quell’anima tinge. Lo fa nel suo dialetto perché è “aderente alla franchezza e alla concretezza” del suo dire

Fabio Franzin ha pubblicato varie raccolte poetiche, di cui ricordiamo l’ultima, Erba e aria (172 pagine, 12 euro), uscita nel 2017 per Vydia Edizioni. Franzin è un autore atipico rispetto ai canoni del nostro panorama poetico, in quanto scrive in un dialetto che è una variante Liventina del Veneto-Trevigiano e lavora come operaio. La sua poetica risente molto di questi aspetti, essendo impregnata di terra, di lavoro manuale, ma anche di angherie che i suoi versi evidenziano in maniera sapiente.

Può parlarci della sua ultima raccolta?
FRANZIN_ERBA_E_ARIA
Erba e aria, uscita all’inizio di quest’anno, è un canto verde e azzurro in cerca dell’anima. Anima che, mi sembra, l’umanità sembra aver smarrito o, perlomeno, sbiadito in sé stessa. Dopo aver cantato l’uomo nei luoghi del lavoro o della perdita dello stesso, dopo aver parlato del grigiore dei capannoni del nord est (ora in gran parte abbandonati, dove la natura sta riprendendo possesso del suo spazio naturale), ho sentito l’esigenza di cercarla, quest’anima di cui sento lacerante la mancanza. Così mi sono ricondotto, ho mosso la mia penna e i miei passi nei luoghi appartati dell’origine: prati, fossi, cespugli, lungo i canali e i fiumi, seguendo il volo o l’immobilità degli uccelli in un cielo e in una terra che sapeva ancora infondere sacralità e speranza. Nella stessa ho poi avvertito la sacralità delle bestiole che popolano l’erba e le nostre carezze, e in esse ho sentito molta meno bestialità che nell’umano.

Può darci qualche ragguaglio sul suo dialetto?
Quello in cui scrivo, ormai prevalentemente, è il dialetto che parlo, in cui penso e sogno. Una variante Liventina del Veneto-Trevigiano parlato nella zona che da Oderzo, l’antica e romana Opitergium, si spinge verso est, a Motta di Livenza (prediletta della Serenissima) dove vivo, sino alle propaggini della provincia e della regione; a pochi chilometri si insinua una lingua terminale di territorio veneziano, poco dopo incominciano le province friulane di Pordenone e di Udine. È un dialetto pastoso e terragno, dalle ampie legature vocali, da me scelto (Achille Serrao, grande critico e poeta dialettale scomparso da poco, affermava che non è il poeta a scegliere la lingua in cui scrivere, ma che è la propria lingua più intima a scegliere per esso) perché aderente alla franchezza e alla concretezza del mio dire.

Nella sua poesia è molto presente la condizione delle persone più umili con le quali si misura quotidianamente.
Il mio approccio alla poesia è iniziato proprio per “sanare” una ingiustizia: ormai trent’anni or sono mi trovavo in un bar dove assistetti alla triviale, belluina reprimenda di un oste alla giovane, incolpevole, cameriera nel suo libro paga; nel volto umiliato e offeso di quella ragazza ho trovato la mia “musa ispiratrice” che già avevo per “compagna” all’interno della fabbrica di pannelli in cui lavoravo. Con le mie parole ho cercato di dar voce a questa comunità che, quotidianamente, cerca (forte la tentazione di scrivere cercava) nei propri gesti la ragione per andare avanti in una società sempre più bieca e arrogante, dove l’etica delle mani, il lavoro onesto, è ormai in ostaggio della precarizzazione e degli interessi delle multinazionali dove quelle mani sono, spesso, solo un costo quando non possono essere sfruttate al massimo, e dove l’anima che accompagna le stesse, è solo un “effetto collaterale” da trattare senza tanti riguardi.

Non pensa che nel nostro tempo manchi sempre più la dimensione dell’autenticità?
Certo che ci penso, e in questa ferita si muovono le mie parole. Se pensiamo che la nostra generazione è forse l’ultima, in Occidente, ad aver nuotato nei canali (ora tutti inquinati), ad aver corso nell’erba a piedi scalzi, ad aver scritto lettere a mano (quanta devozione, e rispetto, e amore, nell’atto amanuense di scrivere a mano). Se pensiamo ai nostri figli schiavizzati (in un certo senso distorto in qualche modo anche risarciti) dalla realtà virtuale delle play-station, dalla comunicazione per brevi sms, dai prodotti slegati dalla loro origine: un petto di pollo a fettine incellofanato nella vaschetta in polistirolo cosa ha ancora a che fare col becchime, coi grani di mais che noi bambini spargevamo al pollame nell’aia della casa contadina dei nonni dove ogni gallina, ogni mucca o maiale aveva un nome? E che quando moriva scannato per le nostre bistecche versava sangue, non una macchia di pixel che un tasto cancella. Siamo anche noi diventati cosa fra le cose (Bauman ce l’ha spiegato molto bene in Consumo, dunque sono), anime sperse fra gli scaffali dove le merci non hanno più alcun rapporto con la nostra esperienza. Merci noi stessi, a nostra volta, per le assurde leggi del mercato. Credo che il “rifugio” in qualcosa di impalpabile e vagamente consolatorio come la realtà virtuale si proponga come “viaggio psichedelico” come droga del terzo millennio al male di vivere insinuato nelle nostre anime da una società, e quindi da una realtà, che ha eletto nel profitto il suo daemon, ologramma in cui cercare di annullare le proprie angosce verso un futuro che non promette nulla di buono.

Qual è il rapporto con i libri che legge?
Sono sempre stato un lettore disordinato e onnivoro. Non ho completato gli studi dopo la licenza media, perché primo figlio di una famiglia umile, ho dovuto incominciare a lavorare in fabbrica a quindici anni. Così, ciò che sentivo come un handicap si è rivelato invece una fortuna: ho letto i libri che desideravo leggere per passione, non per dovere, quando ho voluto o quando mi sono capitati fra le mani. Allo stesso tempo, diventato poi autore, ho compreso che dietro all’autore di una data opera non c’era “lo scrittore”, vaga entità non meno incorporea dei personaggi dei video-games dei nostri figli, ma ragazzi, uomini e donne in carne e ossa, che hanno mosso le loro parole sulla carta mentre erano alle prese coi loro sogni o con le loro paure, innamorati, delusi, vessati dal potere e dalla storia, o magari mentre friggevano le due uova in padella che forse erano il loro unico pasto della giornata, oppure scritte frettolosamente nel retro di una commessa, al lavoro. Da qui il fatto che leggo, con passione e riconoscenza, quelle propaggini umane che sono le poesie, i romanzi o i saggi che stringo fra le mani, indossando gli occhialini da lettura.

Quali sono gli autori che maggiormente hanno contribuito alla sua formazione?
Per le ragioni succitate, tutti o nessuno in particolare, mi verrebbe da dire, perché da ogni libro ho ricevuto in cambio un’esperienza, sia di vita, sia di stile. Però so che non posso cavarmela così vagamente, a buon mercato, come sono usi fare i nostri politici. Perciò provo a stilare un breve elenco di autori che ho amato forse sopra gli altri: Leopardi, per il suo sguardo interiore e allo stesso tempo incarnato sulla società e sul paesaggio; Caproni per la cantabilità sommessa e allo stesso tempo profonda come una sonda; Zanzotto per le stesse ragioni di Leopardi e Caproni, anche se il suo dire è più oscuro, e in più per il dialetto; Heaney e Walcott per aver creato un epos potente con una lingua precisa e umana; Primo Levi, e non solo per le sue opere sui lager; Pasolini, e non solo per le sue opere letterarie; Bauman e Augé per aver descritto, profeticamente, la società e i “non luoghi” in cui stiamo sempre più stretti e spaesati; Robert Frost perché è il poeta che sento più vicino.

Cosa sta preparando attualmente?
Sto lavorando, molto lentamente, ad ampliare una plaquette uscita due anni or sono col titolo Corpo dea realtà che avevo abbandonato perché disilluso e amareggiato dalla stessa realtà. Perciò dopo l’uscita all’erba e all’aria pura degli ultimi due anni ho ritrovato in me l’esigenza di confrontarmi di nuovo con l’istanza civile; operazione che serve anche a me stesso, come uomo prima che come poeta, per non spegnere l’anelito di speranza verso le ingiustizie, per non abdicare.

Può commentare la poesia inedita presentata?
Ho scritto questo testo (ora rivisto) alcuni anni or sono sulla scia dell’emozione delle immagini della Rothko Chapel di Houston. I suoi trittici neri appesi in quel luogo di meditazione, mentre l’artista viveva una profonda depressione, mi sembrarono l’immagine, l’emblema del dolore. Ecco, pensiamo che essi vengano staccati dal chiodo che li sosteneva (ma che poteva sostenere anche una qualsiasi altra opera d’arte, uno specchio, un crocefisso, o un lunario nella colonna squadrata e lercia di una stalla), e in quella parete rimanga solo, visibile, la sua capocchia. Ecco il punto in una pagina bianca, nel vuoto spoglio di sacralità, di bellezza, di identità che è il nostro tempo. Davvero non avremo più nulla di sacro da appendervi?

 ***

Fabio Franzin 

Un ciòdo tel muro

Un ciòdo tel muro

l’é un punto in mèdho

a ‘na pagina bianca

 

un brinco pa’l gnent

che ‘na volta ‘vea forma

drento aa stanza vòdha

 

e che ‘dèss ‘assa spazio

a un pensièr, ‘na figura.

Un ciòdo tel muro

 

fa squasi paura vardarlo,

roa inpiràdha tel ciaro

dea carne, tarma moscàt

 

dea nostra esistenzha

senza pichéti tea tèra

senza nissuna cornìse.

 

Un ciòdo tel muro

el resta là, parché no ‘e pì

gnent de sacro da tacàr.

Fabio Franzin

(Un chiodo nel muro – Un chiodo nel muro / è un punto in mezzo / a una pagina bianca // un sostegno per il nulla / che un tempo ebbe forma / dentro la stanza deserta // e che ora dona spazio / a un’ipotesi, una presenza. Un chiodo nel muro // fa quasi paura osservarlo, / spina conficcata nel candore / della carne, tarlo zanzara // della nostra esistenza / senza appigli nella terra / senza alcuna cornice. // Un chiodo nel muro / resta là, perché non c’è più / nulla di sacro da appendervi).

 

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