Erminia Pellecchia
La Biennale Arte di Venezia/1

Delusione Biennale

Che cosa resterà dell'edizione curata da Christine Macel dell'esposizione veneziana? Il concetto enunciativo de “l'arte per l'arte”. Molte buone intenzioni e tanti titoli accattivanti. Più delle opere

Una corda sull’abisso. Un funambolo trasporta copie di opere d’arte da una montagna all’altra ricomponendole e reinventandole in un equilibrio instabile per dare ordine al caos. È un frame del film “Tightrope” dell’artista russo-daghestana Taus Makhacheca, che forse, più di ogni altro lavoro esposto alla Biennale Arte 2017 inauguratasi il 13 maggio con l’esclamazione di gioia “Viva Arte Viva”, si sposa con il progetto del direttore artistico Christine Macel: l’arte, in un momento di disordine globale, che ci costruisce ed edifica. L’arte, oggi più fragile che mai, appesa com’è a un filo sul vuoto delle idee, può disegnare il mondo di domani, “un mondo dai contorni incerti, di cui gli artisti meglio degli altri intuiscono la direzione”, spiega. Una Biennale, dunque, secondo la Chef Curator del Centre Pompidou, “con gli artisti, degli artisti e per gli artisti, sulle forme che essi propongono, sugli interrogativi che sollevano, sulle pratiche che sviluppano e i modi di vivere che scelgono”. Un contesto intellettuale importante, che, sulla rotta indicata dal presidente Paolo Baratta, si apre alla possibilità di un neoumanesimo nel quale “l’atto artistico è a un tempo atto di resistenza, di liberazione e di generosità”. E’ questa la premessa della drammaturgia che la Macel ha messo in scena, scandendola in nove capitoli, tra Arsenale e Giardini, chiamando ad interpretarla, in dialogo con gli spettatori, 120 artisti, di cui ben 103 presenti per la prima volta a questa edizione numero 57. Molti sono delle scoperte, altri delle riscoperte. Tanti i giovani, numerose le donne. Intrigante sulla carta, la Mostra rivela alcune debolezze: non ci sono guizzi, pochi i grandi nomi, banali, salvo qualche caso, gli interventi tematici, rari i momenti di suggestione. Ad emozionare sono soprattutto i video, le fotografie e le performance con la loro immediata presa narrativa; ad affascinare è la quinta: la laguna che ipnotizza con i giochi di luce che il sole disegna sull’acqua, e le architetture che la ricamano e vi si specchiano quasi miraggio. Così belle, così fatiscenti. Due mani giganti le soccorrono, è l’omaggio di Lorenzo Quinn alla materna Venezia, con la sua monumentale installazione che “sorregge” Ca’ Sagredo sul Canal Grande. Un paesaggio spaesante dove perdersi inseguendo un altrove che è conoscenza, riconquista di sé, dei propri sogni da condividere con gli altri in un viaggio gioioso verso l’ignoto, come quello che propone il collettivo giapponese The Play con la loro casetta galleggiante che va alla deriva, soggetta ai capricci della corrente. L’utopia in movimento, l’utopia per il cambiamento. L’humour per esorcizzare il mal di vivere.

Seguiamo la griglia tracciata dalla curatrice francese, cercando una bussola. Il suo racconto parte dal Padiglione centrale dei Giardini con la soglia lirica, vero e proprio inno al colore, dei Drapes di Sam Gilliam. È suddiviso in due segmenti: il Padiglione degli Artisti e dei Libri e quello delle Gioie e delle Paure. Titoli accattivanti, contenuti deludenti. Annoia la sezione otium-negotium, l’inerzia laboriosa opposta al mondo degli affari a cui, in ogni caso, l’artista non sfugge. Attraversiamo velocemente la famiglia di pigri iterattivi capitanati da Mladen Stilinovic, scomparso quest’anno, e dal vincitore del Leone d’oro 2011 Franz West, uno sguardo ai manifesti strappati di Raymond Hains, alle provocazioni trash di John Waters, agli accumuli compulsivi di Hassan Sharif che sbeffeggia il consumismo degli Emirati Arabi, ai volumi “recuperati” dal cinese Liu Ye, alle trascrizioni di Irma Blank, ai codici criptici racchiusi in scatoline di Abdullah Al Sadi, ai palinsesti di Ciprian Muresan che meticolosamente ricopia a matita e sovrappone le opere di grandi maestri da Giotto a Morandi, ed ecco il primo colpo d’occhio: l’enciclopedia bruciata di John Lathan e i suoi bassorilievi fatti di libri, metallo e gesso nebulizzati di vernici. Metafisico è Film Star che inquadra una moltitudine di pagine dipinte in colori diversi che si agitano come pianeti intorno al sistema solare del sapere. Il secondo colpo d’occhio l’offre la sequenza di ritratti deturpati di Maiwan, infinite variazioni dell’anima del pittore siriano, esule a Berlino, morto lo scorso anno. Sono per lo più opere degli anni Sessanta-Settanta, al pari delle raccapriccianti allucinazioni dell’ungherese Tibor Hajas. Ti scuotono, certo. Ma dove sono le paure contemporanee, il disagio dei nostri tempi, il terrore ed i muri? Sono gli artisti dell’oggi che si tirano fuori da un discorso politico e sociale o è la Macel che sembra aver puntato più su una visione new age come isola-rifugio contro l’inferno di quest’epoca di oscurantismo? Cadiamo ma restiamo impassibili nel vederci precipitare, enuncia lo scettico Sebastian Diaz Morales, classe 1975, regista più che videoartista e autore dell’onirico corto “Suspencion”, ispirato ai fumetti di Moebius. Siamo vulnerabili rispetto alla complessità della vita, dice Kiki Smith che usa come metafora per i suoi disegni la carta nepalese, sottile e fragile. Finiamo per arrenderci, sembra farle eco Senga Nengudi con le sue sculture di collant annodati e riempiti di sabbia, la cui elasticità è caduca come il corpo umano.

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Siamo all’Arsenale, capitolo terzo “Spazio Comune” che ci accoglie con un bazar di taglia e cuci, in nome di un artigianato da recuperare come identità dei popoli soffocata dal globalismo. Ed è piacevole ritrovare i capolavori minimali di Maria Lai, la fata ricamatrice di Ulassai. Qui, scriveva Filiberto Menna, grazie a lei, a quel nastro di tela jeans lungo ventisei chilometri che nel 1981 attraversò e legò in un rito catartico d’amore tutto il paese, “il grande sogno dell’arte contemporanea di cambiare la vita, si è realizzato”. L’artista sarda, scomparsa nel 2013, è tra i pochi italiani in Mostra, una vera “sciamana” che non si capisce perché sia stata relegata, quasi nascosta, in un angolo. La grande parete d’ingresso è punteggiata dai rocchetti cromatici di Lee Mingwei che ci stupirà poi, nel silenzio zen del giardino Scarpa interrotto dalla colonna sonora di uccelli e insetti, con l’esperienza di un “dono” lasciato al visitatore con un patto: potrà aprirlo solo quando incontrerà la bellezza. Interagire è sicuramente la chiave di questa Biennale. Ecco il telo sospeso di David Medalla, il pubblico diventa performer nell’atto creativo congiunto del ricamo. Ecco il murale-sipario tra pittura e scultura di Franz Erhard Walther (Leone d’oro per il migliore artista di Viva Arte Viva) che invita lo spettatore ad incorporarsi nell’opera, condividendo il gesto creativo. Ecco Martin Cordaro spiazzarci con la sua casa in costruzione, i battiscopa già rigidamente delineati e stanze occupate da sfere di gesso, immobili, solo spostandole – ma è impossibile – si potrà modificare la percezione claustrofobica. Ecco la danza planetaria, il rituale collettivo coreografato da Anna Halprin. Il Padiglione della Terra è tutto un peana all’ecologia. Diverte il giardino pensile di Michel Blazy, con le piante che crescono anarchiche nelle scarpe da ginnastica esposte come in un negozio. Attraggono le fantascientifiche colonne che evocano il paesaggio delle saline con i fossili dell’era dell’antropocene di Julian Charrière. Intriga la ricerca storico e sensoriale sul caucciù del vietnamita Thu Van Tran.

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Capitolo quinto, Padiglione delle Tradizioni. Lo introduce un altro italiano, Michele Ciaccioferra, sardo di nascita, siciliano d’adozione, casa a Parigi e cosmopolita per elezione. Studi da antropologo, parla dell’ancestrale e misterioso che è in ognuno di noi e lo filtra, attraverso la memoria, costruendo una “casa” delle fate, le Janas, con favi, ceramiche, fossili di pesci, fili di lana e libri “mummificati”. Il neozelandese trapiantato a Londra Francis Upritchard, invece, crea sculture figurative dall’aspetto sinistro in un teatrino etnico e culturale. Mentre Hao Liang evoca gli antichi maestri cinesi dello shanshui con le sue vedute letterarie e pittoriche di Xiaoxiang. Grande effetto teatrale, poi, quello dell’installazione site specific di luce e tessuti del portoghese Leonor Antunes: una serie di “tende” in ottone, corda, pelle, gomma, vetro e sughero si susseguono in un gioco di trasparenze e opacità in un dedicato a Venezia. D’impatto il “Visible Labor” di Gabriel Orozco, travi di legno assemblate dal cui interno spuntano figurine di Buddha, Ferrari in miniatura e una tavola da gioco del Go: il suo commento sarcastico sulla società industriale in declino. E attira l’attenzione il “Nine Dragons in Wonderland di Yee Sookyung, un accrocchio gigantesco e mostruoso composto da frantumi di vasi coreani in ceramica ingemmati da resine perlacee e foglie d’oro.

 

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Il Padiglione degli Sciamani è al centro del concetto magico dell’arte della Macel. Il protagonista principale è il brasiliano Ernesto Neto, che ci inizia a questo percorso dello spirito con la tenda amazzonica sospesa alle travature del soffitto della navata principale dell’Arsenale. E’ un luogo di socializzazione, di guarigione dell’anima, attiva i sensi complice le cerimonie spirituali a cui parteciperemo accompagnati dai pajès indios. Si segue la via del sufismo con Younés Rahmoun che introduce ai 77 gradi della fede: settantasette berretti di lana coprono settantasette lampade in attesa di essere svelate. Una seduta spiritica con la voce di uccelli estinti è quella che propone il guatelamese Naufus Ramìrez-Figueroa, quasi preludio al momento più poetico dell’Esposizione: il video “Un hombre que camina” del cileno Enrique Ramìrez. E’ il rito di passaggio dal mondo dei vivi a quello dei defunti. Sfondo è il deserto di sale di Uyuni, in Bolivia, ripreso durante la stagione delle piogge, un sottile strato acquatico riflette la luce del sole e le variazioni del cielo. Compare un uomo, il viso nascosto da una maschera da diablo nortino, trascina con passo pesante gli abiti dei defunti verso il loro ultimo viaggio. Il suono di una fanfara, si materializza una banda e un gruppo di dolenti – spettri o persone reali? – che accompagna il cammino dolente di questo traghettatore di anime. Il Padiglione Dionisiaco è tutto coniugato al femminile dagli indumenti intimi, sculture indossabili, di Heidi Bucher al circo erotico di Huguette Caland, dalle tele plasmate e seriali di algida sensualità di Zilia Sànchez alle foto di nudi deformati di Eileen Quinlan e alle storie di pane nel mosaico di audiocassette della saudita Maha Malluh. “Simpaticamente ciarlatana”, come si definisce, è Pauline Curnier Jardin che ci regala il grottesco e trasgressivo film “Grotta Profunda. Apprufundita”, un po’ punk, un po’ burlesque con una Bernardette in una grotta utero sotto effetto di una trance sessuale mentre le appare un Gesù lascivo che le sussurra “My name is love”. Quel Cristo giovane ed ammiccante lo incontreremo in carne e ossa, in giro tra i padiglioni, pronto ad abbracciarti chiedendoti di lasciarti andare. Due italiani, due pittori ultraottantenni per il Padiglione dei colori: Riccardo Guarneri in Mostra con i suoi dipinti evanescenti e luminosi e Giorgio Griffa che rievoca, nella sua sfida verso l’ignoto, i canoni aurei della pittura. Dal loro minimalismo all’esplosione della tavolozza di Sheila Hicks, con il muro di balle di fibra pigmentata su cui appoggiarsi per un attimo di soffice relax. Siamo alla fine, il Capitolo nove è quello del Tempo e dell’Infinito. “Il concetto di tempo – spiega la Macel – riappare oggi con una nuova tonalità metafisica, tra labirinti borgesiani, speculazioni su un futuro già iscritto nel presente, o su un infinito sognato. Oltrepassiamo la soglia tra visibile ed invisibile, ammonisce Edith Dekyndt, chiedendoci di varcare una tenda d’alluminio. Nel chiaroscuro rimanda le nostre ombre sulle pareti di una piccola stanza; a terra un manto di polvere, un cerchio magico illuminato dall’alto, una persona sistema il pulviscolo con una scopa, sollevando una nube impalpabile ed iridescente.

Un universo in miniatura è quello di Liliana Porter. L’argentina ripropone l’installazione “El hombre con el hacha”, di grande umanità: una figurina armata di scure sembra essere l’origine dei detriti adagiati sul tavolo, un pianoforte sventrato, frammenti di ceramica e oggetti rotti, perfino una Minnie ed un Che Guevara in una riconciliazione tra capitalismo e comunismo. Un’atmosfera liquida, rarefatta: Liu Jianhua ci introduce nel suo straniante pavimento labirinto “Square” costellato di lastre di acciaio da cui sorgono catini di porcellana smaltata a vetro dorato. E il tempo si ferma nell’ingannevole installazione di Alicja “nel paese delle meraviglie” Kwade. Demiurgo contemporaneo che trasforma gli oggetti in Ufo.

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Un doppio intervento spazio-temporale il suo, alle Corderie ed all’esterno dove ha costruito una galassia di pietre pianeti riformulando la sintassi dell’universo. Il Padiglione Italia con il suo Mondo Magico (vedi articolo di Danilo Maestosi) non interrompe, anzi amplifica il discorso sul tempo e l’infinito. Che la Macel conclude evocando Bas Jan Ader, figura mitica dell’arte contemporanea, misteriosamente scomparso, a 33 anni, in mezzo all’Oceano Atlantico. Lo vediamo, nel video “Broken fall” appeso al ramo di un albero – quasi profezia della morte – che sporge su un corso d’acqua, non ce la fa a sostenersi e cade giù. Il tempo che passa e l’artista che insegue l’immortalità, lasciando tracce della sua presenza come le orme impresse sui gradini di una scala da Fiete Stolte. Cosa resterà di questa Biennale? Sicuramente il concetto enunciativo de “l’arte per l’arte”, una linea guida per le altre a venire.

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Le foto sono di Inexhibit.com

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