Nicola Fano
Visto alla Comunità di Roma

Quadriglia americana

Giancarlo Sepe mette in scena (alla sua maniera) "Washington Square" di Henry James: un carosello impazzito nel quale i sentimenti degli individui cedono agli interessi delle "masse"

La forza del teatro di Giancarlo Sepe è nello stile inconfondibile: un suo spettacolo si riconosce sempre. E i segni sono: la capacità di giocare con lo spazio e con i corpi; la forza persuasiva del rapporto tra azione e musica; una perfezione quasi maniacale nel governare la fisicità degli interpreti; la passione per quel teatro che riesce a riprodurre il grumo emotivo della grande letteratura solo attraverso le immagini. Washington Square, ispirato al celebre romanzo di Henry James – ora in scena alla Comunità, a Roma – ne è l’ennesima dimostrazione: un gioco felice intorno a un plot forte e radicato nella storia. E in qualche misura si ricollega a Dubliners, performance di qualche anno fa dedicata ai racconti di Joyce. Insomma, Sepe prosegue qui quel suo percorso creativo che lo porta a rievocare la letteratura a cavallo tra Ottocento e Novecento.

L’opera di James, con l’ironia tipica di questo scrittore, racconta la storia di una ragazza intelligente ma brutta che entra in conflitto con il padre ricco e saccente, capace solo di ricondurre il mondo al proprio ombelico. La lotta della giovane per sposare un bel pretendente (contro la volontà del padre, ovviamente, che nell’innamorato vede solo un cacciatore di dote, forse giustamente) è propriamente l’oggetto del romanzo. Sullo sfondo di un’America che sta perfezionando il suo sogno e che si prepara a diventare faro (non solo economico) del mondo.

Giancarlo Sepe prende questo materiale e lo comprime in uno spettacolo lieve e gaio (anche nei casi in cui la trama è ben altrimenti pesante o drammatica): una sorta di quadriglia costante nella quale i personaggi (propriamente) si incontrano, si scontrano e si allontanano. Per poi ritrovarsi, scontrarsi di nuovo e perdersi ancora: così all’infinito, viene da pensare. Come un carosello impazzito nel quale i sentimenti degli individui finiranno per passare in secondo piano: il Novecento, con la sua venerazione per le masse, è lì dietro l’angolo. Che cosa volete che importi, al progresso, l’aspirazione semplice di una ragazza che vuole essere libera e se stessa? Eppure è proprio questo il tema dello spettacolo di Sepe: il conflitto tra individui e masse. La presenza costante di “gente” (voci e corpi) intorno a Catherine Sloper, la protagonista, sta proprio a simboleggiare il fatto che lei non è più in grado di essere se stessa. E come lei nessuno: siamo tutti individualità negate.

La regìa e la drammaturgia di Sepe corrono tranquillamente su questo crinale, malgrado la scelta (secondo me non necessaria) di far recitare agli attori le proprie (poche) battute in inglese. Un inglese, giocoforza, basico, semplice: proprio perché la parola è un elemento non indispensabile, in genere, in questo tipo di spettacoli. Gli attori, del resto, sono tutti formidabili nel mettere la propria fisicità al servizio del disegno generale, a partire da Pino Tufillaro, storico sodale di Sepe, che, nei panni dello “stolto” Austin Sloper guida il gruppo di giovani interpreti formato da: Sonia Bertin, Marco Imparato, Silvia Maino, Pietro Pace, Emanuela Panatta, Federica Stefanelli, Guido Targetti e Adele Tirante. Insomma, uno spettacolo (per altro coprodotto dalla compagnia di Umberto Orsini) che per l’ennesima volta dà la misura della vitalità di un regista e un teatro (La Comunità di Roma) cui non pesa minimamente un prestigioso passato.

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