Danilo Maestosi
Al Maxxi di Roma

Il bosco che danza

Omaggio a Piero Gilardi, maestro dell'Arte Povera che dopo aver ricostruito la natura sui suoi "tappeti", ora la ripropone in veste tecnologica. Come un palcoscenico da sciamani

Manica lunga del Maxxi. Il vernissage è sigillato da un intervento a sorpresa. Piero Gilardi, l’autore al quale il museo di via Guido Reni dedica questa retrospettiva, è davanti all’istallazione che è il cuore e lo spartiacque della mostra. In basso le opere che lo hanno consacrato giovanissimo maestro dell’arte povera, più in alto un campionario di maschere e attrezzi di scena fabbricati per le manifestazioni di piazza che ne documentano la ininterrotta continuità di attivista e animatore politico dagli anni Sessanta a oggi. E di fronte questa istallazione, scelta insieme a poche altre a raccontare la stagione degli interventi interattivi con cui Gilardi si è sottratto alla depressione e all’oblio e ha rilanciato la sua vena di sperimentazione di nuove forme di democrazia da abitare, nuovi obiettivi per cui val la pena battersi insieme.

L’opera è una versione ridotta di un lavoro presentato nel 1989: due file parallele di alberi di un vigneto sghembo e posticcio chiuse da uno schermo bianco. Una macchina di scena che l’autore mette in movimento soffiando in un buffo imbuto, che ricorda la buca di un suggeritore.

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Piero Gilardi è un uomo di 76 anni ben portati. Fisico esile, capelli bianchi, sorriso gentile, una timidezza spaurita. Ma una voce suadente da apprendista stregone che sale di tono e di presa man mano che svela i segreti della sua magia. Già, perché gli alberi hanno cominciato ad agitarsi sui loro piedistalli di finta roccia, sussultano, sbracciano i loro rami e i loro grappoli d’uva su cui è sbocciata una lucina rossa. Danzano davanti allo schermo che si è acceso, sul quale Gilardi ha disegnato con tratti quasi infantili e proietta le sequenze un mondo che crolla e rinasce, se lo aiutiamo a farlo. Un bosco che danza al ritmo di una musica trascinante e orecchiabile. Lui è il primo a dare l’esempio, togliendo d’impaccio la folla dei visitatori che lo imita. Eccolo saltellare come un bambino goffo e felice insieme alla sua compagna, districandosi tra altre schiene, altri corpi, altre gambe. Un’esibizione improvvisata che è l’impronta più forte di questa strana mostra. E detta il copione a noi che la stiamo osservando.

Perché il vero spettacolo non sono le opere che abbiamo visto e stiamo vedendo ma la fragile caparbietà di questo artista fanciullo, che fabbrica e vende i suoi sogni di vita e di libertà, ammaliandoci come il pifferaio di Hamelin. È questa la vera chiave di questa rivisitazione: dimentichiamo il gelo in doppiopetto di questo museo, l’arte, almeno per questa volta, diventa vita da afferrare e condividere.

Un’emozione più forte dei dubbi da addetti ai lavori che pure ci assalgono. Su questa macchina di scena che sembra un’attrazione da luna park, le luci rosse da tunnel delle streghe, questi alberi ballerini di poliuretano, queste rocce da presepe malfatto. Sul tuffo nel vuoto nel quale da critici ci stiamo lanciando: non c’è rischio ad accettare questa interpretazione dell’arte? Di dar credito a tanti orrori, a tanti cattivi esempi di arroganza superficiale e di kitsch, a tante truffe nel nome dell’arte che si vedono in giro? Come la gigantesca operazione con cui a Venezia l’inglese Damian Hirst, superstar di stupori miliardari, ha cercato di rilanciare le sue quotazioni in ribasso: una parata di mostri, giganti, sirene, divinità pseudo-antiche, relitti fatti di gesso e incrostazioni di corallo, giustificata dall’invenzione di un leggendario tesoro recuperato dopo millenni dal fondo del mare. Un furto all’immaginario dei cinema e dei suoi artigiani da set: nei magazzini di Cinecittà si vedono cimeli più convincenti, suggestivi e ben fatti. Un assemblaggio di citazioni non dichiarate spacciato per arte. Senza pudore, pentimenti, rimorsi, sconfitte.

Tormenti e delusioni come quelle che invece Piero Gilardi ha dovuto patire proprio quando giovanissimo ha imboccato, nel solco dell’arte povera, la strada del successo. Siamo agli inizi degli anni Sessanta, attorno una società che sta esplodendo di ingiustizie, sopraffazioni censure, la fantasia che vuole conquistare il potere, la classe operaia che insegue il suo paradiso, quando Gilardi realizza ed espone il primo prototipo di tappeto-natura. Assemblando su un piano di calpestio intrecci di frutti, rami, vegetali modellati con effetti d’iperrealismo pop attraverso calchi di poliuretano dipinto. E poi cimentandosi in infinite variazioni sul tema. Creazioni inedite e di forte impatto, di cui la mostra presenta un ricco campionario: letti di fiume lastricati di sassi e relitti di alberi, spiagge sabbiose da cui spiccano il volo stormi di gabbiani, distese di foglie autunnali.

Un colpo d’ala che lo incorona maestro ma segna anche il suo fallimento. Nelle sue intenzioni la gente su quei tappeti avrebbe dovuto sdraiarsi, dormire, rotolarcisi su. E invece le quotazioni alle stelle dei galleristi, unita alla fragilità dei materiali, li trasformano in cimeli intoccabili. Altro che manifesti di una libertà da estendere a tutti, strappata alla Natura come il fioco di Prometeo. Tesori e status symbol per benestanti da appendere al muro, magari inscatolati in bacheca come quei tre suggestivi rilievi di pere e mele rugginose e mature, che un collezionista ha prestato per l’occasione. Alla Sonnebend che gli spalanca le porte degli Usa, Gilardi propone altri esperimenti. Lei lo zittisce: sei matto!, continua a sfornare tappeti. E lui, schierato con la sinistra più estrema e combattiva, entra in crisi, rompe con l’arte povera, sceglie nuovi campi d’azione, finanziandosi con le vendite di quei maledetti/benedetti tappeti che vanno a ruba. Finiscono nei salotti di ricchi e piccoli borghesi.

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«È democrazia» anche questa», ride amaro Gilardi che dopo una lunga fase di ripensamenti cerca e trova il suo riscatto in un’altra invenzione da pioniere: istallazioni interattive, con l’uso di nuove tecnologie, che coinvolgono il pubblico, lo invitano a giocare. E a pensare. Certo, è una tecnologia riletta e pensata con l’animo di un fanciullo anarchico e ribelle. Ingenuo come le invenzioni in cui comincia a dar corpo. Portate in passerella con pochi esemplari dai curatori della mostra, Ho Hanru, Bartolomeo Pietromarchi e Marco Scotini. Ecco quel vigneto posticcio in cui abbiamo visto l’autore danzare. Ecco la sagoma di un albero contorto e squarciato che sembra presa in prestito dagli incubi di Biancaneve: entri nel buco e una colonia di batteri e stelline luminose ti brulica sul volto e sul petto. Ecco un masso di plastica dipinta a forma di cono di vulcano: se sei abbastanza agile da calartici dentro, la torcia da minatore che ti mettono in mano illumina bagliori di gemme e pepite. La felicità semplice e nuda come un gesto d’infanzia. È l’arte come un gioco che ti addestra a non rinunciare mai alla felicità. A lottare per conquistarla. Trovando la forza nel riderci su. E in una fantasia calibrata su quella degli altri, del Diverso e dell’Altro. Su uno spirito comunitario che Gilardi continua a predicare. E a cercar di mettere in pratica: l’ultimo suo intervento è un giardino di fantasia che  sta realizzando a Torino.

È la verità profetica di un giullare alla Dario Fo quella che questa mostra, Natura forever, ci consegna. Una parabola di denunce urlate da continui camuffamenti, tante battaglie e poche mai definitive vittorie che si chiude con una spassosa sfilata da carnevale: le maschere, le messe in scena animate che Gilardi confeziona e presta ai movimenti nelle manifestazione di piazza. Dagli esordi a oggi. Dai pupazzi di Andreotti a quelli di Monti, Renzi, Marchionne. Dai girotondi contro la guerra a quelli dei No Tav e dei cortei da primo maggio. Pescecani, serpenti, pipistrelli: padroni, mentitori, oppressori e ipocriti da chiamare alla gogna.

L’arte che diventa commedia. Sberleffo in nome di una vera democrazia che – Gilardi ne è sicuro – prima a poi arriverà.

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