Roberto Mussapi
Every beat of my heart, la poesia

Genova per Campana

Il poeta dei “Canti Orfici”, uno dei non riconosciuti fondatori della poesia moderna, vide nella città addobbata dal rossore del tramonto «l’anima vivente delle cose». E la declamò, quasi invocandola, nei suoi versi…

Dino Campana vi arrivò al tramonto. Genova gli si impresse indelebilmente, per sempre. Lo spirito di Colombo, che aveva segnato Walt Whitman, il grande poeta americano che dai suoi spazi oltreatlantico guardava al genovese come padre fondatore dell’America. Ne vide il rossore animante nel cielo di Genova: elettrico, brulicante di un ardore rossastro accendeva «i cubi degli alti palazzi», penetrava nei vicoli più riposti, lo vide rosseggiare sulle navi che salpavano, imprimere un brivido lacerante alle grandi chiglie che si allontanavano verso la nera notte, penetrare come un’ascia sulla cresta del mare imprimendo luce sanguinolenta alle scie, mentre gli occhi dei marinai già si perdevano nelle brume dell’orizzonte. Poi lo vide impennarsi, brillare di «lune elettriche» quando già le navi erano terrazze gigantesche oscillanti nello loro luci, quarti di città che si staccavano dalla banchina verso «la città notturna». Prendeva forma ai suoi occhi nelle tolde illuminate, nelle superfici chiare sul mare, la sua «patria antica» in attesa nella notte.
Sentì nella notte genovese il moto inarrestabile delle navi nell’oscurità, l’energia che nasce dalla «piaga che sanguina», «la piaga rossa languente», e se ne alimenta. Aveva visto la città-porto scivolare nel sonno: «il porto che si addorme, il porto il porto», colto l’attimo in cui le macchine e le funi e le braccia e le mani degli uomini rallentavano il loro moto: «l’albero oscilla a tocchi nel silenzio». Il suo occhio si fermò sulle «finestre ventose del vico marinaro», vetri che non fermavano il vento ma se ne lasciavano attraversare, si spinse oltre i «grigi rossori» della sua «ardesia», contemplò «finestre lucenti come stelle», vide in Genova la «femmina dei porti», la «donatrice», si ritrovò «nel salido odore del vento», nella «melodia di lontani canti sperduti». Vide «l’anima vivente delle cose», nel brulicare dei portuali che arrotolavano le gomene, issavano le balle, nei vecchi che incatramavano le funi, nei vapori incendiati dei cavi, trovò «le forme molteplici/ che muovono e cantano e stridono/ elettrizzate». La nominò tre volte, invocandola: l’ultimo verso dell’Anima vivente delle cose fu «Genova Genova Genova».
Dino Campana è uno dei non riconosciuti fondatori della poesia moderna.
Nel mio ultimo incontro con Mario Luzi, da tempo senatore e novantenne, vi fu una conversazione, una delle tante tra noi, fin dalla mia gioventù. Avvenne il 31 dicembre. Non a caso. Desideravo incontrarlo, a lungo, e poi, nel pomeriggio salire sul treno portandomelo dentro a Milano, per l’aperitivo e l’inizio del nuovo anno. La conversazione è pubblicata su Vita e Pensiero. In quell’occasione, come riportato nella rivista, in un bilancio definitivo del Novecento poetico, da parte di un poeta prossimo a salpare per altro regno, e ancora lucidissimo e in forma, parlando dei grandi, Eliot, Ungaretti, Yeats, Pound, rilevava nella assoluta grandezza comunque qualche segno di tristezza del Novecento. Solo Campana, mi disse lo faceva sentire nella poesia come in una pienezza antica e assoluta. Solo Campana, per Mario, in quel secolo, aveva scritto qualcosa pari alla vita.

 

dino campana 

Poi che la nube si fermò nei cieli

Lontano sulla tacita infinita

Marina chiusa nei lontani veli,

E ritornava l’anima partita

Che tutto a lei d’intorno era già arcanamente

illustrato del giardino il verde

Sogno nell’apparenza sovrumana

De le corrusche sue statue superbe:

E udìi canto udìi voce di poeti

Ne le fonti e le sfingi sui frontoni

Benigne un primo oblìo parvero ai proni

Umani ancor largire: dai segreti

Dedali uscìi: sorgeva un torreggiare

Bianco nell’aria: innumeri dal mare

Parvero i bianchi sogni dei mattini

Lontano dileguando incatenare

Come un ignoto un turbine di suono.

Tra le vele di spuma udivo il suono.

Pieno era il sole di Maggio.

Dino Campana

(Da Genova)

***

Sotto la torre orientale, ne le terrazze verdi ne la lavagna cinerea

Dilaga la piazza al mare che addensa le navi inesausto

Ride l’arcato palazzo rosso del portico grande:

Come le cateratte del Niagara

Canta, ride, svaria ferrea la sinfonia feconda urgente al mare:

Genova canta il tuo canto!

Dino Campana

(Da Canti Orfici)

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