Ilaria Palomba
Il catalogo del Novecento/3

La meraviglia e l’osceno

“Tropico del Cancro” e “Tropico del Capricorno“ di Henry Miller, capolavori della letteratura d’avanguardia, sono diari di viaggio nell'esistenza, volti a raccogliere dettagli, susseguirsi di racconti, esperienze, considerazioni filosofiche e morali

Scrivere di Henry Miller è come viaggiare nello spazio sterminato. Credo non vi sia cosa più difficile al mondo poiché la sua scrittura dice tutto e poi lo sottrae. Non per altro ebbe diversi problemi con gli editori, il suo romanzo più famoso Tropico del Cancro fu bandito in America ed ebbe una condanna per oscenità, condanna che però gli valse anche la gloria altrove (difatti fu pubblicato prima in Francia). Per un bel periodo di tempo Henry fu pubblicato da un editore d’avanguardia e in effetti se si considera la sua scrittura, dal punto di vista stilistico così come da quello strutturale, è avanguardia pura. Assenza totale di trama o canovaccio, linguaggio tagliente mitigato da frammenti di poesia e filosofia delle più alte, descrizione minuziosa degli aspetti più osceni e realistici della società del suo tempo, indugiando non poco sui tratti più scabrosi: povertà, pidocchi, prostitute, sesso selvaggio, ma poi anche infinito desiderio, non solo di corpi, un desiderio disperato d’amore, di bellezza, di affetto, di entrare a far parte della storia del proprio tempo, di essere accettato da una società già in declino su quell’impervia strada che fa emergere solo chi sa ben nascondere gli inferni quotidiani che pure infestano le grandi metropoli dell’Occidente. Un canto funebre per il mondo che si frantuma, seguendo la direzione sbagliata, quella dell’individualismo bieco in cui l’unità è perduta, la pace è perduta, la possibilità di essere sinceri con l’altro è perduta. La diagnosi sociopolitica emersa dai romanzi di Henry Miller è un triste pronostico di come la nostra civiltà Occidentale, da sempre ritenuta superiore alle altre, abbia messo in scacco l’unica via verso la salvezza cosmica: l’Amore.

Il romanzo si apre con Boris (Michael Fraenkel), sconosciuto scrittore e filosofo ebreo, con cui Henry abitò nel periodo di stesura del Cancro, che ha i pidocchi ed Henry è intento a radergli le ascelle. Nella contingenza di questa situazione realistica ma grottesca, Boris dice che il tempo previsto non è buono, riferendosi al piano meteorologico, prima, ma poi forse nell’accezione in cui Miller l’intende si tratta in realtà dell’umanità nel suo insieme, del Tempo sul mondo, dell’incapacità umana di rendersi conto dei propri errori e magari avviare un cambiamento nella Storia. Tuttavia, tutte le congetture filosofiche crollano nel momento in cui in effetti Boris ha i pidocchi, e devono cercare di procacciarsi una cena che non sia avariata o conservata da secoli nella disadattata dimora in cui Henry è ospite.

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Abito a villa Borghese. Non un granello di polvere, non una sedia fuori posto. Siamo soli e siamo morti.

Ieri sera Boris si è accorto di avere i pidocchi. Gli ho dovuto radere le ascelle, ma il prurito non ha smesso. Come si fa a prendere i pidocchi in un posto bello come questo? Ma non pensiamoci. Non ci si sarebbe mai conosciuti così intimamente, Boris e io, se non fosse stato per i pidocchi.

Boris mi ha fornito poco fa un compendio di come la vede. È un profeta del tempo. Farà brutto ancora, dice. Ci saranno ancora calamità, ancora morte, disperazione. Non c’è il minimo indizio di cambiamento. Il cancro del tempo ci divora. I nostri eroi si sono uccisi, o s’uccidono. Protagonista, dunque, non è il Tempo, ma l’atemporalità. Dobbiamo metterci al passo, passo serrato, verso la prigione della morte. Non c’è scampo. Non cambierà stagione.

(Henry Miller, Tropico del Cancro, Feltrinelli, 2012, p.13)

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Tropico del Cancro è un libro, si diceva, senza trama. I capitoli si susseguono presentando una quantità immensa di personaggi e gli unici a tornare spesso sono Boris e Mona, seconda moglie di Henry, la June (suo vero nome) poi descritta anche da Anais Nin in Henry e June, Fillmore e Collins. Impossibile separare il Miller scrittore dal Miller uomo. I Tropici, anche il Capricorno, sono diari di viaggio nell’esistenza, volti a raccogliere dettagli, susseguirsi di racconti, esperienze, considerazioni filosofiche e morali e poi ancora esperienza, esperienza, esperienza. La vita irrompe in tutto il suo vitalismo. In Tropico del Cancro un edonismo spinto fino al limite estremo fa da contorno al vuoto universale di una Parigi bella come una prostituta, che affascina all’inizio per poi lasciarti deluso, come ti avesse derubato. Ciò che è ammirevole, a parte lo stile impareggiabile, è la capacità di passare senza stacco dall’interiorità all’esteriorità. Una fondamentale differenza tra le due sfere è data dalla tenuta semantica che muta radicalmente, poetica e filosofica quando si tratta di introspezione, ricordi di una famiglia con cui Henry non si è mai del tutto riappacificato, e invece velocissima, descrittiva, cronachistica, secca, quando si tratta di guardare al mondo francese e ai personaggi che lo popolano.

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Parlavamo ancora del barone de Charlus quando giungemmo al bar di Jimmie. Era tardo pomeriggio e il posto cominciava ad affollarsi. C’era Jimmie, il viso rosso come una barbabietola, e accanto a lui la sua sposa, una bella francese paffuta con gli occhi lustri. Ci fecero tutti un’accoglienza meravigliosa. Di nuovo innanzi a noi bicchieri di Pernod, il grammofono urlava, la gente ciarlava in inglese, in francese, in olandese, in norvegese, in spagnolo, e Jimmie e sua moglie, tutti e due con un’aria svelta e lesta, si scambiavano manate e baci di tutto cuore, e alzavano i bicchieri, li facevano tintinnare – insomma, in complesso un ribollire e un ciarlare d’allegria che ti veniva i voglia di levarti i panni e di attaccare una danza di guerra.

Yvette – cioè la moglie di Jimmie – fu straordinariamente carina e cordiale con noi. Stava apparecchiando un po’ di tavola in nostro onore. Sarebbe occorso ancora del tempo. Non dovevamo ubriacarci troppo – voleva che apprezzassimo il pranzo. Il grammofono suonava all’impazzata e Fillmore aveva cominciato a ballare con una bellissima mulatta che aveva un vestito di velluto ardente che rivelava tutte le sue grazie. Collins mi venne a fianco e sussurrò qualche parola alla ragazza che tenevo sotto braccio. “La madame la invita a cena,” disse, “se ce la vuoi!” Era una ex puttana, padrona di una bellissima casa nei sobborghi della città. Amante di un capitano di mare, adesso. Lui era via e nn c’era nulla da temere. “Se le piaci t’invita a restare da lei” aggiunse.

Per me bastava. Mi volsi subito a Marcelle e cominciai a lisciarle il culo. Stavamo ad un angolo del bar, fingendo di ballare, e ci si stropicciava all’impazzata. Jimmie mi strizzò l’occhio e fece col capo un cenno d’approvazione. Era una puttana lasciva, questa Marcelle, e carina al tempo stesso. Subito si liberò dell’altra ragazza, notai, e poi ci accingemmo a una lunga conversazione intima che disgraziatamente fu interrotta dall’annuncio che la cena era pronta.

(Henry Miller, Tropico del Cancro, Feltrinelli, 2012, pp. 171-172)

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henry miller

Tropico del Capricorno è più profondo di Tropico del Cancro, aumentano le riflessioni e anche i flussi di coscienza feroci, onirici, potenti. La scrittura è più alta, stilisticamente aumentano le digressioni e si stratificano i registri. Se in Cancro Miller compare quasi sempre come spettatore della vita, persino nel sesso è una sorta di spettatore dell’osceno, anche quando partecipa in prima persona, in Capricorno si immerge completamente nelle vite degli altri e nella propria, va davvero a fondo nell’esperire ogni cosa e infine si perde nel ricordare un amore lontano e meraviglioso, immaginifico, una donna che ha del surreale, dell’ideale, del divino. Non so se sia una donna in carne e ossa o un sogno.

Probabilmente qui è più intenso anche perché descrive il mondo da cui era fuggito: gli Stati Uniti d’America. Demolisce il sogno americano (il capitalismo dunque) a rasoiate.

Passaggi evocativi, sempre restando sulla doppia linea dell’osceno e della critica sociale sono: un episodio in cui fa sesso con una donna mentre lei è semi addormentata; il personaggio meraviglioso della nera innamorata di lui che gli offre i pasti; la bigotta che non tollerava le bestemmie ma con qualche dolce parolina si lascia palpeggiare per bene; le mogli degli amici e le loro infezioni veneree e poi le mogli degli amici con cui ci prova; la donna bislacca con cui aveva rapporti solo al buio. Il tutto mitigato da digressioni metafisiche e socio-politiche, momenti di altissima poesia e altri bassissimi invece, parole taglienti, dirette, rasoiate, appunto. Quest’alternanza fa di Henry (dopo Jack London) uno dei pionieri del genere on the road e di quella che più tardi fu una delle più leggendarie avanguardie americane: la Beat Generation (lui non ne fece parte e il suo stile è da considerarsi molto più originale rispetto alle contaminazioni jazz dei beatnik, ma di Kerouac ebbe una grande opinione).

L’incipit di Tropico del Capricorno è una delle cose più belle mai scritte.

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Una volta mollata l’anima, tutto segue con assoluta certezza, anche nel pieno del caos. Dal principio non fu mai altro che caos: un fluido che mi avviluppava, e io vi respiravo per branchie. Nei substrati, dove la luna brillava ferma e opaca, era liscio e fecondo; sopra era rissa e discordia. In tutte le cose io vedevo subito l’opposto, la contraddizione, e tra il reale e l’irreale l’ironia, il paradosso. Ero io il mio peggior nemico. Nulla c’era che volessi fare e potessi anche non fare. Anche un bambino, quando nulla mi mancava, io volevo morie; volevo arrendermi perché non vedevo senso nella lotta. Sentivo che nulla si sarebbe provato, sostanziato, aggiunto o sottratto, continuando un’esistenza che non avevo chiesto. Tutti attorno a me eran dei falliti, e se non falliti ridicoli. Specialmente chi avesse avuto successo. Questi poi mi infastidivano fino alle lacrime. Ero solidale con chi sbagliava, ma non era la simpatia a muovermi. Era una virtù meramente negativa, una debolezza che fioriva alla sola vista della miseria umana. Non ho mai aiutato nessuno aspettandomi che ciò gli facesse del bene; lo aiutavo perché non ero capace di fare altrimenti. Voler cambiare la condizione delle cose a me pareva futile; nulla sarebbe cambiato – ne ero convinto – se non per un mutamento del cuore, e chi può cambiare il cuore degli uomini? Di tanto in tanto un amico si convertiva; roba da piangere. Non avevo bisogno di Dio, più di quanto Egli avesse bisogno di me, e se un Dio ci fosse, dicevo spesso tra me; andrei a trovarlo calmo calmo e gli sputerei in faccia.

(Henry Miller, Tropico del Capricorno, Feltrinelli, 2012, p.11)

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Il capitolo più commovente in assoluto del Capricorno è quello in cui per la prima volta, per esteso, parla del padre. Miller aveva un rapporto particolare con la famiglia, non aveva mai perdonato la madre per la freddezza, la meschinità e la superiorità con cui trattava il padre. Il padre era un uomo povero, semplice, avvezzo al buon vino e al cibo indubbiamente, cosa che anche Henry non disdegnava affatto. Di certo non era un intellettuale, era un uomo modesto, allegro, conviviale, alle volte fanfarone. Questo fa capire che di certo gli stimoli intellettuali Henry li trovò all’infuori della famiglia. A un certo punto però, costantemente umiliato da sua moglie, il padre di Miller smette di bere, fa un fioretto, una promessa. E lei non fa altro che tentarlo, per farlo cadere nella propria fragilità, ma lui è lì, imperterrito, nel dimostrare di avere forza d’animo. Come controcampo si ammala di una malattia di cui non viene mai detto il nome. Quindi il figlio lo porta dal medico di famiglia, ma questi ha dei preconcetti nei confronti della famiglia Miller perché un giorno Henry si era presentato con lo scolo, e allora, tale padre tale figlio, pensa il medico. Gli fa la morale tutto il tempo finché il figlio non insiste per sapere cos’abbia il padre. Il medico risponde in modo brusco che non gli resta poi molto da vivere. Henry mente a suo padre dicendogli che la situazione è grave ma guarirà se s’impegna a condurre una vita decente.

Il padre prende a frequentare la parrocchia, prima non era mai stato religioso, ma il parroco con cui entra in contatto sembra convincente perché non fa proseliti, gli rende invece l’animo migliore. Più che una parrocchia pare a Henry che suo padre frequenti una scuola serale, è divenuto più colto, riflessivo, mite. Ciò dura per un bel po’, finché il parroco non viene spedito altrove, dove guadagnerà di più. Il padre di Miller è certo che lui possa convincerlo a restare, e ci prova, ci prova più volte, fallendo. Il fallimento viene descritto fino all’ultimo istante della vita del padre. Qui l’Henry Miller scabroso e osceno lascia spazio all’immensa umanità dell’Henry Miller maturo, empatico, amorevole, speranzoso, bambino in un certo senso, un uomo che crede fino alla fine che suo padre possa farcela con il solo volere. Forse è una redenzione sacra ma non religiosa quella in cui Miller spera, quella in cui crede fino all’ultimo istante, la redenzione da un mondo di miseria, di squallore, la incommensurabile schiusura dell’animo alla volontà di sapere, conoscere, studiare, migliorarsi. Ed è questo l’Henry Miller che più vicino a noi, questo anche ciò che la sua seconda moglie June, e l’amante Anais Nin, spesso nelle loro lettere e diari sottolineano di lui. Questo scrittore degli ultimi, così profondo, generoso, dall’animo dolce, nobile e di una profonda onestà intellettuale.

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Quest’affare della fede, della promessa mai appagata, mi fa pensare a mio padre, che fu abbandonato nel momento di maggior bisogno. Fino al tempo della malattia né mio padre né mia madre avevano mostrato grandi inclinazione religiose. Pur difendendo la chiesa di fronte agli altri, mai avevan messo piede in una chiesa, dal giorno delle nozze.

successe tutto nella maniera più ordinaria. Una sera dopo la solita riunione degli Uomini, il vecchio tornò a casa con espressione dolorante. Aveva saputo quella sera che il sacerdote se ne andava. Gli offrivano un posto più vantaggioso nel comune di New Rochelle, e pur assai riluttante ad abbandonare il suo gregge, aveva deciso di accettare l’offerta. Naturalmente l’aveva accettata dopo molte trattative – in altre parole come un dovere. Significava migliori proventi, di certo, ma era niente a paragone delle gravi responsabilità che stava per accollarsi. Avevan bisogno di lui a New Rochelle, ed egli obbediva alla voce della coscienza. Tutto questo il vecchio ripeteva con lo stesso tono untuoso che il sacerdote aveva dato alle sue parole ma fu subito chiaro che il vecchio ne restò ferito. Non capiva perché New Rochelle non potesse trovarsi un altro sacerdote. Disse che non era giusto tentare il sacerdote con un salario più grosso. “Ci serve qui”, disse con foga, con una tristezza tale che io quasi mi misi a piangere. Aggiunse che avrebbe parlato a quattrocchi col sacerdote, che se uno era in grado di convincerlo quello era lui. Nei giorni seguenti fece del suo meglio, e certo con gran scorno del sacerdote. Faceva pena vedere l’espressione vuota del suo volto quando tornava da quei colloqui, l’espressione di un uomo che si aggrappa a un fuscello per non affogare. Naturalmente il sacerdote fu inflessibile. Anche quando il vecchio scoppiò a piangere davanti a lui non s’indusse a mutar consiglio.

(Henry Miller, Tropico del Capricorno, Feltrinelli, 2012, pp.131-139)

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