Giuseppe Grattacaso
A proposito di "Haiku italiani"

Mondo haiku

Luigi Oldani con la sua poesia cerca continuamente un legame tra quello che descrive (a parole) e l'invisibile (o mai visibile o il non più visibile); tra gli oggetti e la loro natura

Luigi Oldani ha sempre vissuto la letteratura con una sorta di delicata attenzione nei confronti della parola poetica, una generosa partecipazione alle vicende più complessive della poesia del nostro tempo, un commosso rispetto nei confronti dei maestri. Ne è testimonianza l’appassionata attività quale organizzatore di letture e incontri, e soprattutto l’esperienza di coordinamento e redazione della rivista Pioggia Obliqua, partita come periodico radiofonico e poi, negli anni Novanta, diventa una tra le più significative pubblicazioni di letteratura, aperta a contributi di notevole spessore e a partecipazioni illustri, quali quelle di Enzo Siciliano, Antonio Tabucchi, Mario Luzi, Luigi Baldacci. Da qualche tempo la rivista è riproposta in versione online (https://www.pioggiaobliqua.it/) e si avvale dei contributi dei maggiori scrittori italiani di questo inizio secolo, tanto da diventare, nel giro di poco tempo, uno dei più attivi punti di riferimento della poesia italiana di questi anni.

Oldani, che è autore di diverse pubblicazioni, ha presentato recentemente quella che finora più essere considerata la sua opera più originale e matura. Gli Haiku italiani, editi per i tipi di Samuele Editore, sono infatti un libro denso, di scrittura rigorosa e di notevole spessore espressivo. Il poeta, forte di un periodo trascorso a Tokyo per motivi di lavoro e di un’esperienza maturata nel Centro Zen Firenze, tra i più rappresentativi dello Zen europeo, si avvicina ad una delle forme tradizionali dell’espressione poetica nipponica con grande sensibilità e con la capacità di muoversi in equilibrio sulla linea di confine tra la quotidianità e la cultura europee e le consuetudini espressive e la raffinatezza di marca orientale.

luigi oldaniNella poesia italiana dello scorso secolo non sono mancati esempi di poeti che si sono avvicinati alla forma dell’haiku, semmai senza ripercorrerne rigorosamente i dettami tradizionali. È il caso di Saba e Zanzotto, ma anche alcune liriche di Ungaretti sembrano richiamare lo stile e la composizione sillabica della lirica giapponese. In ogni caso, Oldani sembra più vicino, per l’utilizzo di immagini legate alla nostra quotidianità e per la propensione a far materializzare il vuoto e il senso di vanità che accompagna ogni nostro gesto, alla produzione, piuttosto significativa, che Jack Kerouac dedicò al genere, in pratica reinventandolo ad uso della nostra sensibilità di occidentali.

Luigi Oldani, che mantiene in massima parte la struttura dell’haiku tradizionale, pur assicurando alle sue poesie una maggiore libertà nella lunghezza dei singoli versi, sviluppa un’espressione che appoggia la significazione soprattutto su una sorta di salto logico finale, che apre a contenuti imprevisti e di notevole forza espressiva. Questo modo di procedere, del resto in linea con gli esempi moderni, anche giapponesi, consente di porgere al lettore in maniera semplice ma particolarmente efficace quelli che sono i grandi quesiti che l’uomo si trova ad affrontare: le questioni legate al trascorrere del tempo e alla finitezza delle cose terrene, gli eventi imperfetti e che pure possono apparire eterni, almeno nell’attimo in cui sembrano suggerire un loro impronunciabile segreto. Come scrive Alba Donati nell’introduzione alla raccolta, Oldani con questo suo scatto improvviso alla fine di ogni haiku e con quell’ulteriore verso che ci aspettiamo di leggere, che quasi siamo costretti a pronunciare, e che in effetti non c’è, “rigira il tutto, inverte la direzione, immette cose non viste, non vedibili”.

La forza struggente e in qualche modo sfuggente delle liriche di Oldani è proprio nel legame tra quello che ci viene descritto e l’invisibile, il mai visibile o il non più visibile, si concretizza nel mondo indefinibile che si rappresenta dinanzi ai nostri occhi, tra la corporeità dei reperti naturali che irrompono sulla scena e l’impalpabilità della loro più profonda natura. Per esempio: “Tra le camelie / una gatta s’aggira / le cade un fiore”; o, quasi un manifesto di poetica, “Lascio cadere / parole mai nate: / vento d’inverno”.

Il poeta sembra provare ritegno di fronte alla scoperta della vita e del suo mistero, una specie di incapacità a credere che la parola possa davvero definire una presenza, misurarsi con la vera consistenza della realtà, per cui con consapevolezza confessa: “Dei secchi granchi / con la bassa marea / amo il ritegno”.

Il tempo a cui spesso ci si riferisce in queste liriche non è quello storico che rassicura, mettendoci di fronte all’esistenza di un prima e di un dopo, di un succedersi esatto di segmenti misurabili, quanto piuttosto l’estensione indefinibile, in bilico tra la tradizione dello zen e lo spaziotempo delle recenti acquisizioni della fisica: “Di ogni fiore / ogni petalo esiste / per tutto il tempo”; “Come la stella / tutta nel cielo oggi / piango questo blu”.

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