Nicola Fano
Alla Sala Fontana di Milano

Girotondo Goldoni

Marco Lorenzi ha messo in scena “Gl'innamorati" di Goldoni; una storia di passione e gelosia, di delusioni e fallimenti. Una storia eterna, insomma, rivitalizzata da un'ottima compagnia di attori

Come mai non capita più spesso di vedere classici a teatro? Non dico quelli dei tromboni, dico i classici fatti da compagnie giovani, possibilmente piene di energia, di idee e rispetto. Credo dipenda da un duplice equivoco formativo. Da un lato, la scuola appiattisce i classici, li immusonisce, impedisce loro di mostrare ciò che li rende classici, ossia la loro capacità di parlare sempre a pubblici di tutte le epoche. Di essere emotivamente sempre “contemporanei”, come diceva Jan Kott. Dall’altro, il nuovo teatro – sovente insufflato da consiglieri di modesta levatura – tende a scriversi i testi da sé. Come se si nascesse imparati. Come se per crescere non si dovesse invece misurarsi con la storia. Con gli altri, con quel che è già stato codificato e misurato. Con i classici, insomma.

Da tempo rimugino su questa mania (che so soprattutto italiana) e sulla limitatezza del cosiddetto “nuovo teatro” che spaccia balbettii per nuova drammaturgia: per ciò sono uscito felice dal Teatro dell’Orologio di Roma dopo aver assistito a Gl’innamorati di Carlo Goldoni messo in scena da Marco Lorenzi con la sua compagnia “Il mulino di Amleto” (lo spettacolo ora è a Milano, alla Sala Fontana: non perdetevelo!). Perché ho visto un Goldoni nudo e crudo, ossia perfetto. Solo, agghindato di energia: quella dei giovani, bravi attori del gruppo: Fabio Bisogni, Roberta Calia, Andrea Fazzari, Barbara Mazzi, Raffaele Musella o lo stesso Marco Lorenzi.

La storia de Gl’innamorati la sapete: è un gioco sulla gelosia dove i due protagonisti Eugenia e Fulgenzio sono parenti stretti di Benedetto e Beatrice, gli amanti loro malgrado di Molto rumore per nulla di Shakespeare. Sarebbe a dire due innamorati che parlano invece di vivere. E che si parlano uno contro l’altro perché non sanno come liberare altrimenti il proprio desiderio fisico, carnale, sessuale. Eugenia è inutilmente gelosa di Fulgenzio e viceversa: tutti si adoperano per cementare il loro rapporto tranne loro stessi che invece non sanno come dal corpo alla propria vita, alla propria passione: ne hanno paura, propriamente. E l’aver paura dell’innamorato è come aver paura di se stesso, per Goldoni. Che confezionò questo capolavoro (nel 1759, ossia alla fine della sua stagione veneziana) pensando alla sua borghesia che s’era perduta dietro a troppe chiacchiere e che a furia di cavillare e ingelosirsi aveva rinunciato alla propria rivoluzione. C’è tutto queste nelle schermaglie amorose di questi due ragazzi viziati, tenuti per il collo da vecchi scemi e da giovani aristocratici pronti a profittare delle loro debolezze. Non solo un intrigo amoroso, dunque.

Il chiaroscuro di una società sulla via del tramonto è ben presente in questo felice spettacolo: la regìa di Marco Lorenzi, giocando molto e bene con le luci, dà il senso di un crollo improvviso. Un girotondo d’amore che finisce con un corto circuito; che precipita quasi al buio, con le lamentele finali di Eugenia e Fulgenzio sospese davanti a un faro d’emergenza (tipo quelli che una volta si usavano nelle stazioni ferroviarie per mandare segnali notturni), come urla lanciate nel vuoto di black out. Passioni al vento, inutili come il lieto fine che Goldoni, educatamente, poneva in coda a tutti i suoi intrecci, perché il pubblico non uscisse insoddisfatto ma fosse invece indotto a riflettere per cogliere il senso per proprio piacere. Lo stesso capita al pubblico di questo spettacolo d’oggi il quale, nella replica cui ho assistito, ha riso di cuore e applaudito, dando il senso di un segnale lanciato quasi tre secoli fa da un genio e oggi ancora captato grazie a un pugno di ottimi attori disposti a fidarsi di quel genio, ossia di Goldoni. Dovrebbe capitare più spesso…

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