Sabino Caronia
“Io non mi chiamo Miriam”

Il segreto di Malika

La letteratura dell’Olocausto si arricchisce dell’avvincente romanzo di Majgull Axelsson. Dove tra presente e memorie si racconta la vicenda di una ragazzina rom che pensando di salvarsi si spaccia per ebrea, andando così incontro a un tragico destino

Io non mi chiamo Miriam (Iperborea, 2016) di Majgull Axelsson è innanzi tutto un romanzo, un romanzo avvincente che ti prende dalla prima all’ultima pagina. Al di là del discorso che viene spontaneo – come sottolinea nella postfazione Bjorn Larsson, che comunque evidenzia anche la “narratività” che distingue questo da molti scritti-documento sull’olocausto – a proposito della letteratura riguardante l’olocausto, questo è innanzi tutto un vero romanzo, la cui protagonista ci fa vedere coi suoi occhi e ci fa sentire col suo cuore la vita nei campi di concentramento.

Se fosse solo questa la vicenda narrata probabilmente risulterebbe alquanto pesante da digerire e avrebbe un che di deja vu. Invece il libro inizia nella Svezia oggi, quando la protagonista compie 85 anni e di fronte al bracciale regalatole dai suoi con il suo nome inciso, Miriam, non si trattiene per un attimo dal dire qualcosa che si è tenuta dentro per settanta anni: «Io non mi chiamo Miriam». Già prima di questa sussurrata confessione della protagonista si aprono spazi del passato nella sua mente e sulle pagine, dove la memoria del passato si alterna col racconto del presente. Questo è un escamotage che rende la lettura più scorrevole. Non si è di fronte a un lungo ricordo, ma i ricordi affiorano così, casuali, a volte più lunghi, a volte più brevi, e c’è anche, spesso e per lunghi tratti, il ricordo nel ricordo.

cop MiriamQuando Miriam-Malika è in Svezia i primi tempi ogni tanto ritornano, non voluti, non cercati, i ricordi. Sono i ricordi di una vita che vita non può neanche dirsi, in cui si procede per forza di inerzia, per quella volontà di sopravvivere che è connaturata in noi, qualsiasi cosa abbiamo sofferto e stiamo soffrendo – parliamo di una ragazzina di 15 anni che si è vista strappare in un giorno terribile i genitori, la cugina, che è rimasta col piccolo fratellino, Didi, stretto alla sua mano, e per lui ha vissuto nel campo, finché anche lui le è stato portato via in seguito ai terribili, indicibili esperimenti del dottor Mengele. La prima volta che Hanna partendo per un paio di giorni lascia la protagonista sola nella sua casa lei può dedicarsi ai ricordi, a quei ricordi che deve trattenersi dentro sempre davanti a tutti: «Almeno una parte. Quelli che erano quasi sopportabili. La risata di papà. Gli occhi scintillanti di Anuscha. E poi Didi da piccolo. La manina nella sua. Il corpicino stretto al suo sul materasso che dividevano. Gli occhi neri. Il viso che si disintegrava e liquefaceva sotto i suoi occhi… No! Era insopportabile!». Più volte Miriam-Malika ripensa a Didi, e allora vengono raccontati gli esperimenti sconvolgenti di Mengele, ma in momenti diversi, una sequenza dopo l’altra – sarebbe insopportabile una intera sezione del libro dedicata a questo argomento, mentre per brevi tratti si riesce, pur con grande difficoltà, a leggere, anche se il lettore si sente morire, pensando che un mostro del genere di Mengele non solo aveva potuto esistere ma se l’era passata liscia e aveva continuato a vivere finché la vecchiaia se l’è portato via, chissà dove.

Poi però – ed è questo secondo me uno dei messaggi più interessanti del libro – ci si trova a riflettere che sì, quelle cose erano fuori della portata di qualsiasi essere umano – i terribili esperimenti di Mengele come la tremenda “notte degli zingari” in cui tutti i rom, a famiglie intere, vennero caricati sui camion per essere portati dal campo alle camere a gas – ma che pure, ancor oggi, ci sono bambini che a quattro anni vengono istruiti a prendere il fucile e sparare, che vengono uccisi con una bomba mentre sono a scuola nei loro piccoli banchi con le loro cose, i quaderni, le penne, l’impegno in cui mettono tutti se stessi, o quelli che, trovato un bel giocattolo per terra, lo prendono, felici, e saltano insieme a esso, morendo o perdendo una gamba, un braccio, la vista…

Senza dubbio è un libro complesso. C’è il segreto, la difficoltà di portarselo dentro per settanta anni, stando sempre attentissima, come ben sottolinea Larsson, e c’è il razzismo eterno, la esemplare vicenda di Miriam che prima si passa per sbaglio per ebrea (si è infilata velocemente il vestito di una ragazza morta per non essere punita perché il suo è a brandelli, e solo dopo si accorge che sopra è cucita la stella gialla e le viene sussurrato da una vicina che il nome della ragazza di cui ora lei sta prendendo l’identità è Miriam) e non può e forse non le conviene nemmeno dimostrarsi per quello che è – anche se una compagna che la conosce le dice che le SS ce l’hanno con gli ebrei forse più che con i rom – e che poi alla fine del nazismo, in Svezia, conosce il razzismo contro i rom, quando ormai gli ebrei, in quanto vittime, sono ben accolti, e allora è costretta a continuare nella sua finzione. In conclusione, come dicevo, un libro complesso, che fa riflettere. Finita una delle pagine più terribili, forse la più terribile dell’epoca moderna, quella del nazismo, se ne aprono altre, e il romanzo della Axelsson, pubblicato ora, non può non farci riflettere in questo senso.

 

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