Ilaria Palomba
A proposito del "Muggito di Sarajevo"

Sarajevo grunge

Il nuovo romanzo di Lorenzo Mazzoni mette a confronto culture, rabbie e delusioni nella Sarajevo sconvolta dalla guerra del 1993. Una storia sospesa tra il rock e le bombe

Il muggito di Sarajevo di Lorenzo Mazzoni (Spartaco, 2016, pp. 254, 11 euro) è un romanzo corale, estremo per molti versi, ambientato in una Sarajevo in piena guerra dei Balcani, nel 1993. I protagonisti sono molteplici, in ogni capitolo ne vediamo in azione uno differente, e ciascuno è a suo modo protagonista di una vicenda che li trascina gli uni nella traiettoria degli altri. C’è il serbo militante Milan Kosanovic, rapito e segregato, dopo una scorpacciata di funghi allucinogeni, dal cacciatore di taglie senza scrupoli Ivan Radeka. C’è Ivan stesso, con tutte le sue contraddizioni legate al mero atto di sopravvivenza. C’è la cantante grunge Amira, fuggita da Zenica, da un padre fondamentalista islamico che le vietò di suonare la chitarra e sequestrò l sue musicassette. C’è il cugino di Amira, Abdel, una volta amante del rock, e ora convertitosi all’islam duro e puro durante un anno di carcere. C’è il fidanzato di Amira, Jack, detto Mozambik l’irlandese, il quale da giornalista di guerra, in seguito a svariate esperienze che definire estreme è riduttivo, si è reinventato spacciatore (oltre che tossico). Ci sono i fotoreporter italiani Carlo e Oscar che inseguono uno scoop: tra macerie e bombe intendono trovare una vacca indiana che si dice abbia poteri da chiromante.

il-muggito-di-sarajevo-di-lorenzo-mazzoniAlcuni passaggi, soprattutto quelli che riguardano Amira, ricordano Aska, la musicista ribelle di Venuto al mondo di Margaret Mazzantini. Entrambe suonano grunge a Sarajevo e hanno una passione per i Nirvana. Sicuramente la scrittura di Mazzoni, però, non è ammiccante né politiccally correct, per cui ci troviamo spesso di fronte a situazioni surreali, esilaranti o anche tragiche ma raccontate con grande lucidità, quasi reportagistica, e quel pizzico di cinismo caratteristico di chi ha viaggiato e conosce i meccanismi intimi della sopravvivenza in situazioni estreme.

I dialoghi appaiono naturali e realistici, lasciando trapelare uno studio approfondito di quella che fu appunto la guerra dei Balcani e la politica slava. La tensione narrativa è sempre molto alta in quanto ogni capitolo rimanda al successivo con l’aggiunta di un tassello nel puzzle che solo alla fine si ricompone per intero. Compaiono costantemente nuove svolte narrative, nuovi punti di vista, e le vicende dei vari protagonisti man mano s’intrecciano tra loro. Lo stile miscela bene, e senza troppi salti, il linguaggio parlato con una semantica più propriamente descrittiva, capace di allontanarsi per poi riappropriarsi delle varie vicende. Non è solo un romanzo d’azione ma un libro che sa far commuovere e sorridere, e contiene un’ampia disamina del comportamento umano in situazioni limite.

«Quando cercò di vietarle di suonare la cigar box guitar e di requisirle il walkman e tutte le sue musicassette, Amira decise che era giunto il momento di fare il grande salto. Lasciò scritto un biglietto alla madre, dicendole che non doveva preoccuparsi per lei e che sarebbe andata a Sarajevo a cercare fortuna, si mise uno zaino in spalla e partì verso sud. A Kiseljak trovò il passaggio con i puffi danesi. L’oscurità dentro il blindato, qualcuno che le palpava le tette, il rumore infernale dei cingoli, l’odore, fortissimo, del gasolio. Al check point Sierra One il polizotto serbo era troppo sbronzo per accorgersi che lei non era un militare scandinavo. Sarajevo l’aveva accolta nella luce abbagliante di una giornata quotidiana d’assedio. Le strade deserte, disseminate di carcasse di macchine, vagoni di tram sventrati dalle granate, edifici rasi al suolo. Un’agghiacciante ed elettrizzante sensazione di essere arrivata nel posto giusto al momento giusto».

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