Pier Mario Fasanotti
Un libro per Natale

L’anima di Emma

Rapiscono le pagine di “Madame Bovary” in cui Flaubert s’addentra nell’interiorità. Affilato, essenziale e modernissimo il pennello con cui tratteggia i moti del cuore della protagonista del suo celebre romanzo che impiegò otto anni a concludere

Per completare quel capolavoro che si chiama Madame Bovary, Gustave Flaubert (1821-1880) impiegò otto anni. Meticoloso, documentatissimo, procedeva lentamente, anche perché distratto da molti altri impegni e vittima di sporadici attacchi di epilessia (sua madre era nevrastenica). In una lettera all’amante Louise Colet confessa di essere ossessionato dalla perfezione: «Ci vogliono spesso molte ore per cercare una parola»; «Impiego cinque giorni per fare una pagina». Tutta questa tribolazione è ben visibile quando dedica tantissimi capoversi o al matrimonio di Emma con l’ufficiale medico Charles oppure ai raduni-feste di carattere agricolo nel paesello Yonville, vicino Rouen (città natale dell’autore) dove il marito si è trasferito. Il “colore” non manca e nemmeno l’atmosfera. Tuttavia s’inoltra in una prosa sovrabbondante, dietro la quale si avverte la spinta della necessità. Pur vero che il romanzo è ottocentesco (e Flaubert è figlio in tutto e per tutto di quel secolo), ma, con il senno del poi alcune sforbiciate avrebbero conferito un’aria più leggera alla narrazione. Se poi questi lunghi passi si pongono a confronto con la scrittura scarna, nuda all’inverosimile, sovente paratattica, sciatta e molto spesso approssimativa di certi autori del nostro secolo, a me personalmente viene la nostalgia verso una prosa corposa, che è pure elegante e dotata di raffinatissime sonde psicologiche. Inevitabile che la letteratura sia sempre in evoluzione – non potrebbe che essere così – ma altrettanto inevitabile vedersela con prodottini scadenti, magari premiati dalle vendite e, soprattutto oggi, dalla visibilità televisiva.

Il romanzo flaubertiano è composto da tre parti, e queste corrispondono al crescendo della tristezza – che si fa disperazione – dell’adultera Emma, la cui prepotente quanto confusa aspirazione è quella di vivere in una grande città, attorniata da aristocratici e dal bel mondo gaudente. I nobili le appaiono quale emblema luccicante del bon vivre. Emma, così suggestionabile dal “si dice”, si annoia tantissimo (non ha una sua occupazione) anche se volonterosamente, almeno all’inizio, cerca rimedi, salvo poi accorgersi che questi sono quasi tutti posticci. E variabili sulla scia dell’instabile umore di femmina malinconica. Emma vorrebbe che la sua innegabile bellezza diventi molo dal quale spingere la sua barchetta esistenziale. Ci saranno solo navigazioni da fermo, immaginarie e quindi corrosive, oppure brevi e frustranti incursioni in un laghetto che mai sarà mare.

Il guaio vero che il marito Charles è uno che si accontenta, che non riesce a intuire, tantomeno capire la soffocata energia vitale della consorte, la donna che vorrebbe abitare a Parigi. Charles è il colpevole della sua caduta, nella sua tremenda superficialità, nella pretesa che la sua infaticabile professione di medico gonfi d’orgoglio Emma. Certo, «rimane incantato» dinanzi a certe «eleganze» di lei, che «aggiungevano qualcosa al piacere dei suoi sensi e alla dolcezza del suo focolare… era come una pioggia di polverina d’oro sul modesto sentiero della sua vita». In questa frase, e in numerose altre, Flaubert dipinge un ménage coniugale grigissimo e prossimo all’esplosione. Emma talvolta non sente quel che lui racconta e ripete (sempre il suo lavoro), «lo guarda scrollando le spalle», chiedendosi perché non avesse accanto a sé, almeno, «uno di quegli uomini dal fervore taciturno, che si ostinano tutta la notte sui libri». Charles non va mai oltre al proprio naso, pur adorando la moglie. È uno che non inventa distrazioni, che non ha interessi se non quello di curare i pazienti e di condurre una vita del tutto quieta e opaca. La sera è assalito dal sopore e si stravacca sulla sua poltrona davanti al camino. Se lui ha movenze bovine, lei è una colomba. Ma in gabbia. L’ambiente geografico, poi, non favorisce. Lo spiega l’autore: «Qui si è ai confini della Normandia, della Piccardia e dell’Île-de-France, contrada bastarda, dove il linguaggio è privo di accento, come il paesaggio è privo di carattere». Insomma, un’aggravante.

Gustave Flaubert 1821 1880 French novelist From the book The MasEmma sosta nel soggiorno e guarda la gente passare. Scorge il giovane Léon, praticante legale che ha una camera in affitto proprio davanti a lei. «Con la fantasia si ammobiliò un alloggio» racconta Flaubert, ma assiste al «brusco spegnersi di una vibrazione prolungata». Léon è un giovincello impacciato che non regge proprio il confronto con la superba ed elegante figura di quel nobile presso il cui castello fu invitata a ballare, assieme a un Charles goffo, astioso nella sua timidezza paesana. Un pesce fuor d’acqua. A lei, dopo lo sfarzo di quella serata, non rimane altro che «le sozzure della vita domestica». Quando da nubile abitava nella fattoria paterna almeno poteva dar sfogo a piroette giovanili, gioiva per gli spazi aperti, si abituava al proprio corpo in crescita, e le speranze si dilatavano. Fantasie che stavano in piedi in quanto giovanili, non ancora bastonate. Il matrimonio con Charles diventò presto una “prima” di una commedia monotona, mediocre e desolante. Di qui il suo atteggiamento brusco, l’irritazione per un uomo senza nerbo. Quel gran ballo, già! «Eppure» annota l’autore «le fiamme si placarono, sia che il combustibile venisse meno, sia che proprio il combustibile, per eccesso, le avesse soffocate, L’amore a poco a poco svanì per colpa dell’assenza, il rimpianto fu sopraffatto dall’abitudine». Poche righe grazie alle quali ci è chiara la sua dinamica interiore. Si parla di una Emma che «si maledice per non aver amato Léon». Non varca quella soglia e, spiega l’autore: «Da quel giorno il ricordo di Léon fu come il nocciolo stesso del suo male». Se all’inizio abbiamo “criticato” Flaubert per la pesante minuzia di particolari su paesaggi e raduni rurali, non possiamo che essere entusiasti quando s’addentra nell’animo umano. Affilato, essenziale e modernissimo il pennello con cui tratteggia i moti dell’anima.

Emma rimane incinta di Berthe. Una svolta positiva. Nemmeno per sogno. La maltratta essendole estranea. Dice: «Ma come è brutta!». È una catena in più che la inchioda nella «mediocrità domestica». Sarà tenera solo a tratti, come si fa con una piccola ombra. La sua è «una malinconia cupa, una disperazione soporosa». E non è rimedio il cenare a casa dello speziale, dove tutti ammirano il suo portamento quasi parigino. Emma non brama attimi in un contesto pacatamente allegro solo per altri.

Infine, in un’occasione di una fiera agricola, appare Rodolphe. È sicuro (fin troppo) di sé, è un calcolatore, è cinico verso le donne, tutti fiori da cogliere senza metterli nel vaso d’un tempo che dura. C’è il corteggiamento. Flaubert tratteggia bene questo signorotto dai tratti manzoniani quando racconta di lui che torna nella sua tenuta e pensa: Emma è graziosa, è sul punto di arrendersi, e allora perché non affrettarsi, beninteso con presenze e assenze perfidamente studiate? Emma, di nuovo infiammata, esclama «Ho un amante! Ho un amante!».

La relazione si consuma. Ma Emma, per Rodolphe, è troppo melensa, si agita nel romanticume. L’uomo all’inizio apprezza «la sua esaltazione», ma la considera «sgradita al suo buonsenso». Un adulterio a corrente alternata. Parole dolci nel giardino, distrazione di lui. Emma languida, fisicamente splendente con «quelle lunghe ciglia e il setto nasale soffuso di rosa». In un abboccamento notturno Emma gli chiede se è armato, temendo di essere scoperta da Charles. E lui: «Difendermi da tuo marito? Ah povero diavolo». E poi un gesto rozzo, a significare “lo schiaccerei con un dito!”. La donna si riempì di ammirazione, un istante dopo si scandalizzò per quella «rozzezza». Infine i dubbi: «Non sapeva se rimpiangeva di avergli ceduto. O se invece desiderava amarlo di più. L’umiliazione di sentirsi debole si mutava in un rancore mitigato dalla voluttà. Lui la soggiogava: ne aveva quasi paura». Con poche parole Flaubert descrive tutta la complessità della natura femminile.

Rodolphe si allontana, fa frequenti viaggi. Emma diventa «un uccello magro» che zampetta per casa. Ma un altro temporale è in arrivo, quello dei debiti, accumulati da una donna che smarrisce la bussola di moglie oculata. La situazione dei coniugi Bovary si fa via via sempre più drammatica. Pressioni, ricatti, cambiali, vendite di quel poco che si può vendere. Emma, «ebbra di tristezza», cerca una soluzione, ma viene umiliata dai creditori. Infine la decisione di «prostituirsi»: corre nella tenuta di Rodolphe e dopo qualche smanceria gli chiede, disperata, tremila franchi. «Non li ho, cara signora». Violenta reazione di Emma: «Tu non mi hai mai amata… che pena mi fai…t u non mia hai mai amata!». Tornata a casa vede lucidamente l’abisso. La consola Léon, tornato in paese, ma i ricordi delicati non sostituiscono il presente e non hanno la forza del futuro. Flaubert scava ancora e ci racconta di una donna che, pur svogliatamente, cerca di assecondare il marito. Ma ancora una volta questi non comprende le ragioni intime di lei. Si preoccupa solo dei debiti. Emma si uccide con il veleno. Solo dopo la sua morte, Charles per caso trova una lettera appallottolata in soffitta. Monsieur Bovary mostra in quegli attimi tutta la sua inconsistenza di uomo e di marito: «Forse si sono amati platonicamente» si dice. Flaubert completa così il suo ritratto psicologico: «Approfondire troppo le cose non era del resto nella sua natura. Si ritrasse davanti alle prove, e la vaga gelosia si perse nell’immensità del dolore». Ma è solo il dolore d’aver perso Emma, come se lei fosse solo un albero che ha perduto le foglie. Mai un matrimonio fu così drammaticamente sbagliato.

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