Loretto Rafanelli
Ancora su “Ungaretti e il Porto Sepolto”

Dal latte di Bahita

Da Alessandria d'Egitto al Carso... A chiusura dell’anno del centenario della prima raccolta del grande poeta, incontro a Pistoia sul libro di Leone Piccioni pubblicato da Succedeoggi. E sulle ultime opere del critico dedicate al suo Maestro Ungà e al '900 di cui è uno dei più attenti testimoni

Leone Piccioni ritorna instancabile e pieno di entusiasmo, al suo meraviglioso compagno di viaggio, seduto accanto a lui in un dialogo continuo, in un itinerario senza tempo e confini, fedele a colui che è la stella polare della poesia italiana, Giuseppe Ungaretti. Lo fa col garbo, l’intelligenza critica, il gusto del racconto, la conoscenza della persona e della sua storia, che sappiamo. Le tante cose che gli hanno permesso di diventarne il massimo conoscitore e il critico per eccellenza. Piccioni ci ha regalato nell’anno del centenario della pubblicazione della raccolta poetica il prezioso libretto Ungaretti e il Porto Sepolto (edizioni Succedeoggi, acquistabile su questo sito, ndr), narrandoci di una vita e di una poesia che conosciamo, ma che dalle sue parole divengono qualcosa che va oltre: una nuova ricca biografia, una ulteriore conoscenza critica. Questo perché Piccioni non fa solo una semplice analisi, ma ci ripropone passi di una esistenza dal “di dentro”, in una dimensione empatica, a contatto diretto con l’autore.
(La presentazione di Ungaretti e il Porto Sepolto e dei più recenti libri di Leone Piccioni – come il libro intervista Attualità del mio Novecento edito da Dante&Descartes, e il carteggio tra lui e Ungaretti L’allegria è il mio elemento, Oscar Mondadori – si svolge sabato 3 dicembre a Pistoia alle 18, alla libreria Les Bouquinistes, Via dei Cancellieri 5. Intervengono Giuseppe Grattacaso e Silvia Zoppi Garampi, ndr).

Certo Piccioni si sofferma sul primo libro di Ungaretti, Porto Sepolto, dicendo della genesi di questa raccolta e dei suoi punti nevralgici, ma poi via via arricchisce il discorso di molteplici riferimenti sulla vita e sulla straordinaria personalità del poeta, e ciò risulterà indispensabile perché, come dice Daniele Piccini nella introduzione, «la parola poetica di Ungaretti è come un suo ritratto», quindi, non sondarne la vita, vorrebbe dire non comprendere quella poesia. Piccioni entra appieno in quella esistenza e ne ricava un surplus conoscitivo e interpretativo. Partendo dagli anni in terra egiziana, ad Alessandria, scrivendo della difficile iniziale situazione familiare fino alle conoscenze amicali e agli studi nel collegio Don Bosco prima quindi nella scuola Svizzera Jacot, dove peraltro vi era un’ottima biblioteca di cui tanto si servì, fino alle molte girovaghe, ricche, sofferte e gioiose esperienze.

Prendiamo, dal racconto di Piccioni, l’aspetto forse meno considerato del poeta, messo invece in luce nel libro, quello della sua apertura verso le varie religioni o razze: «non so cosa sia la ripugnanza per altre razze» dice Ungaretti, lui vero poeta cosmopolita che attraversa vari paesi, dalla nascita in Egitto a Parigi, al Brasile, approdo di diversi anni, e ovviamente l’Italia, e via discorrendo, e non sono questi semplici passaggi geografici, ma itinerari profondamente umani e culturali, come gli anni passati in terra francese a contatto con i grandi scrittori e artisti che a Parigi vivono, da Apollinaire, amico fraterno, a Peguy, Bergson, Max Jacob, Picasso, Kandinsky, ecc., alla nutrita colonia italiana da Papini a Soffici, da Carrà a Marinetti, da Boccioni a Magnelli. Lui che diceva di sé che era di sangue misto per via del fatto che l’amata bambinaia nera Bahita l’aveva allattato: «mi sono nutrito del latte negro di Bahita. So che il latte non è sangue, credo però che contribuisca a mettere nel sangue stimolo per certe fantasie, certe magie, certe disperazioni, certe irruenze, e forse regala a chi se ne nutre quasi uno stato di innocenza nei rapporti con gli altri».

O la vicinanza affettiva con il caro compagno egiziano Moammed Sceab con cui condivise la passione letteraria e che ritrovò nella capitale francese dove egli si suicidò, toccato dal dolore dello sradicamento («suicida/ perché non aveva più/ patria…/ e non sapeva più/ vivere/ nella tenda dei suoi/ dove si ascolta la cantilena/ del Corano/ gustando un caffè»), e che porta il poeta a dire che tutti siamo in esilio costante, e, come dice Piccioni: «Dovunque il poeta si sente sradicato e non ha da mettere radici… non trova il paese dell’anima», come peraltro Ungaretti ricorda in alcuni versi: «In nessuna/ parte/ di terra/ mi posso/ accasare». Prevale in lui il senso di libertà, l’esigenza di una fratellanza e forse le parole che disse per la morte di Apollinaire, sono il suo manifesto: «Amava l’Italia, la Francia, la Polonia, ma se amava tanta civiltà non poteva essere, non era un nazionalista. Era un partigiano della libertà, nutriva il sogno che sulla terra potesse avvenire un giorno l’ora di tutte libere, le persone umane. Utopia».

C’è invece il deserto come stato di vita, che è poi l’immagine fisica che egli si porta appresso fin dalla nascita e che lo accompagnerà come una condizione costante, nello stato di solitudine e d’arsura (ma pure di «fascinazione erotica e solitaria di quel paesaggio»), specie dopo l’esperienza della guerra, allorché ci ha lasciato poesie marmate, profonde, memorabili. Semmai si potrà vincere questo stato attraverso l’amore, i tanti amori, non ultimo quello per l’amata Bruna giovane brasiliana, che il poeta visse in età avanzata.

cop-portoPorto Sepolto è il frutto di varie esperienze, di molte letture, di uno sguardo straordinario verso la vita, è una poesia tellurica, spaziata verso la luce ma ancorata all’ombra, una poesia nuova, incredibilmente nuova, che si stacca da tutta la poesia precedente, pur inglobando tutta la poesia precedente, che Ungaretti aveva letto e fatta sua (Leopardi, Foscolo, Baudelaire, Mallarmé, Verlaine, Rimbaud, ecc). C’è nei suoi versi il tratto geniale, il tocco di un attimo, il folgorante sigillo della profondità del dire («c’è sempre in lui il narrare e descrivere con una originaria potenza d’inventore lirico, se pure consumato e bruciato in brevissimo», come ebbe a dire De Robertis). Leone Piccioni sintetizza tutto ciò in poche mirabili parole: «È nata una poesia nuova, tesa, drammatica, che non assomiglia a nessun’altra tra l’amore e il dolore, tra l’impegno per la vita e la meditazione della morte, priva di ogni retorica, di ogni parolona… c’è la memoria e la preveggenza. Nasce dalla terra, sprofonda nella terra, ma si alza subito verso le nuvole, verso il cielo». C’è il turbinio dell’esistenza che fa tutto, ed è inutile aggiunge ancora qualcosa, e quindi non è il caso di «cercare pretesti per l’ispirazione poetica: c’è solo da guardare le cose del mondo, dell’umanità, della propria vita affidandosi alla novità e alla purezza di una ispirazione che riguarda molto da vicino tutti i viventi. Una parola non logorata dall’uso improprio, ma trovata con fatica e senza illusioni». Meglio di queste parole del Maestro Leone Piccioni, sul demone creativo e la visione poetica di Ungaretti, non si può dire.

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