Gianni Cerasuolo
Fa male lo sport

Lo spettatore estinto

In Italia nessuno va più allo stadio: i dati sono impressionanti. Il calcio è diventato un genere televisivo. E poi i prezzi, gli scandali, la scarsa credibilità dell’ambiente, il clima di guerriglia: insomma, il baraccone del calcio è vivo e lo spettatore è morto

Oramai non ci si fa più caso. Quelle porzioni di stadi vuote fanno parte della scenografia. Le telecamere indugiano su bambini, belle figliole, coppie. Immagini tranquillizzanti. Lo stadio vuoto è cupo, triste, non funzionale allo spettacolo. Meglio inquadrare qualche altra cosa.

La trasformazione è compiuta: in serie A lo spettatore si è quasi estinto. È una capriola culturale, come per altri aspetti del costume della nostra società. Come per i cinema. L’emorragia cominciata una ventina di anni fa ha prodotto uno stato di anemia irreversibile. Tra poco saremo tutti guardoni davanti alla tv, al computer, allo smartphone. Il biglietto lo faremo direttamente al botteghino di Sky.

La situazione è questa. La media spettatori in serie A si è abbassata ancora nelle prime 9 giornate di questo campionato: 21.992 (secondo il Report della Federcalcio ripreso dal sito di Panorama) contro i 22.221 dello scorsa stagione. Altre fonti danno una media più bassa: 21.400. Ma siamo lì. La Bundesliga è oltre i 41 mila, la Premier oltre i 35 mila. E il load factor, ossia quanti biglietti vengono venduti rispetto alla capienza disponibile, è attorno al 61%. Nella Bundesliga e nella Premier è attorno al 90%. Anzi, secondo alcune stime che si ritrovano in rete, per questa voce siamo addirittura dietro la serie B tedesca che arriva ad un coefficiente di riempimento vicino al 65%.

maradona al san paoloPer Napoli-Empoli, un mercoledì di fine ottobre, c’erano 15.912 paganti per un incasso di quasi 347 mila euro: il peggiore dato dell’era De Laurentiis. A Napoli, una piazza storica per passione e partecipazione. Ma anche Roma non sta meglio. Basta guardare certe partite della Roma e della Lazio e accorgersi del deserto che c’è sulle gradinate dell’Olimpico. I confronti sono imbarazzanti: il quarto turno di Coppa di Lega in Inghilterra, non il campionato quindi, ha fatto registrare per poche gare 341.942 spettatori. Ed è dell’inizio di ottobre scorso, una pagina della Gazzetta dello Sport sul tracollo di tessere abbonati al Milan: quest’anno appena 12.767. Mai così in basso con la presidenza Berlusconi. Aspettando i cinesi. In dieci anni la società rossonera ha perso il 65,8% degli aficionados. Nel periodo degli scudetti di Capello (inizio anni Novanta) furono quasi 72 mila. L’ultima volta sopra i 40 mila abbonati è stato nella stagione 2008-09; già nell’annata successiva all’ultimo scudetto, 2011-12, i tesserati erano scesi a 30 mila. Contano le vittorie e i giocatori. Con l’addio di Kakà, nel 2009, i fedelissimi rossoneri passarono da 43 mila a 28 mila. Ma trofei, scudetti e campioni pesano fino ad un certo punto. Altrimenti non si spiega perché l’Inter, che sta deludendo e passando da un allenatore all’altro nel caos societario più totale, risulti in testa a quella classifica-presenze aggiornata alla 9° giornata di questo campionato con una media di 50.761 spettatori, superiore a quella della stessa Juve che ne conta 39.561 (ma i torinesi pagano una capienza dello Stadium attorno alle 40 mila presenze).

Non vale un buon campionato, invece, per il Napoli che è precipitato agli ultimi posti nella classifica degli abbonati. Eppure la squadra di Sarri ha incantato lo scorso anno, piazzandosi dietro alla Juve. Ma anche quest’estate a prendere la tessera sono stati meno di 8 mila tifosi. Una cifra mortificante per uno stadio che teneva anche 70 mila spettatori ed oltre ai tempi belli di Maradona. Ma è ormai un decennio che il San Paolo – un complesso ridotto male, oggetto di una querelle senza fine tra presidente e sindaco De Magistris, situato nel mezzo dei Campi Flegrei, un’area che preoccupa sempre di più per i rischi sismici – non si riempie più. Una disaffezione che ha tante cause, alcune comuni a tante piazze: i prezzi alti ad esempio; altre dipendono dall’ambiente, dalla città. Molti tifosi non amano De Laurentiis, lo considerano un “pappone”, uno che vive alle spalle della società di calcio per rimpinguare la sua casa di produzione cinematografica. L’ultima accusa è quella di non essere stato capace di impedire il trasferimento di Higuain alla Juventus, di aver intascato i 90 milioni dalla società degli Agnelli e di non aver trovato un degno sostituto all’attaccante argentino. Certo, in una città come Napoli, conta anche il fattore economico: non si è disposti a cacciare in una botta 350 euro per una tessera di curva e si preferisce aspettare partita dopo partita, pagare 30 euro più volte e incazzarsi quando il patron mette a 40 euro un posto in curva per la partita con il Milan. Sta di fatto che in 8 anni la società azzurra, che pure il produttore ha portato tra i top club italiani e che ha i conti a posto, ha perso circa il 70% degli spettatori fissi.

stadi vuoti3Il calcio è diventato un passatempo di lusso. Ha perso la sua anima popolare. I biglietti costano cari un po’ dappertutto. Un anno fa si segnalava la protesta dei tifosi del Bayern Monaco arrabbiati perché per vedere la propria squadra giocare all’Emirates Stadium contro l’Arsenal dovevano sborsare circa 100 euro. Apparve questo striscione: «64 sterline a biglietto, ma senza tifosi il calcio non vale un penny». Proprio i tifosi della squadra allenata ora da Carlo Ancelotti sono abituati a pagare poco e ad usufruire di un impianto tra i più confortevoli. Al contrario dei nostri stadi. Nel 2003-04 il Bayern ricavava dallo stadio 22 milioni. Nel 2005 aprì l’Allianz Arena, un complesso sportivo polifunzionale. La società che gestisce lo stadio tedesco – che è controllata al 100% dal club – ha adesso un fatturato che si aggira attorno ai 49 milioni. Soldi che non arrivano dalla vendita dei biglietti ma da ristoranti, parcheggi, area vip, affitto per eventi. Notava Marco Iaria in una inchiesta condotta lo scorso anno per la Gazzetta dello sport: così il Bayern può permettersi di mantenere la sua vocazione popolare, 15 euro per assistere in piedi alle partite, e di aderire mirabilmente alle logiche degli affari.

È noto che noi apparteniamo ad un altro pianetino. La nostra serie A è schiava dei diritti tv: 888 milioni che rappresentano il 51% dei ricavi totali. Solo l’11% delle entrate arriva dai biglietti (196 milioni). Sono dati dell’ottobre 2015. E se comanda la tv, quale interessi avrà a migliorare i nostri stadi?

Per dire, in Francia il nuovo stadio di Lione è aperto tutto l’anno per attirare e fidelizzare i tifosi ma anche chi non ama il calcio attraverso altri eventi. La rivista Undici ne ha parlato così: «Nel Grande Stade ci sono 500 router wi-fi che garantiscono la connessione contemporanea di 25 mila dispositivi e 300 screen Iptv per controllare diversi contenuti all’interno dello stadio». L’impianto del Besiktas a Istanbul, dove ha giocato il Napoli in Champions, ogni posto a sedere è provvisto di uno schermo per rivedere le azioni della partita. Per non parlare di oltre Oceano. Il Levi’s Stadium nelle Silicon Valley, dove gioca il San Francisco 49ers, è lo stadio più high-tech del mondo. Settantamila persone possono connettersi «a reti wi-fi in modalità 4G e usufruire di servizi personalizzati come replay, statistiche e tutto ciò che ruota intorno alla semplice fruizione di un evento sportivo». Anche perché nel football americano «le azioni di gioco coprono solo 15 minuti dell’intera partita. La gente vuole andare oltre, avere accesso a tutti quei dati che riguardano gli atleti in campo».

leicester-fansCi siamo spinti oltre. All’Olimpico, al San Paolo e altrove non si riesce nemmeno a fare la pipì in ambienti che più che toilette sembrano delle latrine. Altro che wi-fi e mega schermi. Poi certo, anche negli stadi più belli e confortevoli ci potranno essere tifosi depressi e incavolati.

Ma c’è chi rifiuta di ricondurre la scomparsa in Italia dello spettatore pallonaro alle solite cause: l’accessibilità e i servizi delle strutture, i prezzi, le vittorie delle squadre, gli scandali, la scarsa credibilità dell’ambiente, il clima di guerriglia che a volte avvolge le partite del nostro maggiore torneo e che ha ridotto gli impianti in fortini sotto assedio. Secondo Raniero Virgilio, che lo scrive sul Napolista, un quotidiano online di sport, cultura e costume, il calcio ha subìto un cambiamento ontologico. «Fino a tutti gli anni Ottanta e parte dei Novanta esso presentava principalmente le caratteristiche di un rito collettivo, con gli aspetti classici di una religione: l’identità, l’irrazionalità, la comunità. Il tutto regolato nei gesti e nelle forme tipici della ritualità collettiva: le partite la domenica in contemporanea e ad un orario prefissato, l’unica trasmissione (al massimo due) per vedere i gol, le radio sintonizzate sul medesimo canale, lo stadio. Il rito è ordine, ed è ciclico… Come la messa domenicale… Necessita di una cadenza spaziale e temporale precisa e immutabile, perché su questa periodicità fa vivere il senso di comunità. La trasformazione iniziata circa vent’anni fa ha mutato il calcio da rito ad evento. A differenza del primo, il secondo ha carattere di estemporaneità e si verifica quando le condizioni lo consentono. Dunque è, per sua natura, irregolare e non ciclico. Diversamente dal rito che si alimenta di simbologie condivise, l’evento rappresenta una esperienza che, in quanto tale, si fonda molto sul rapporto uno-a-uno tra ciò che accade e il singolo spettatore che la esperisce, rendendola prima di ogni altra cosa, un avvenimento privato». In sostanza, il senso di comunità si è andato smarrendo anche allo stadio.

Ma perché i campionati all’estero non vivono questo momento buio? Perché hanno sempre stadi pieni? Si citano tre esempi interessanti – Germania, Inghilterra e Spagna –per sottolineare il fatto di come il tifo vivi da noi anche una crisi di linguaggio.

stadi-vuoti2La riforma calcistica del 1998 ha modificato profondamente in Germania l’organizzazione di questo sport riportando le squadre alla loro natura originaria, cioè il club, luoghi che si basano sull’associazione di persone. «Gli affiliati ad un club pagano una tessera …aiutando così la formazione di un fortissimo senso identitario nelle squadre». I tedeschi sono tornati al calcio-rito. Una cosa che fa vincere i campionati del mondo ma non fornisce appeal per chi è fuori dalla Germania. E infatti la serie A tedesca non è molto seguita negli altri paesi. Il contrario di quello che avviene per l’Inghilterra che attrae investimenti da tutto il pianeta: «Mentre la Bundesliga ha basato tutto sul senso identitario dei club, l’Inghilterra è la patria del calcio inteso come evento». A metà strada si pone la Spagna che «ha portato a termine un esperimento assai moderno per cui alla base del senso identitario c’è una dato estetico, ossia il gioco».

La nostra serie A è molto lontana da tutto questo. Il pubblico diserta gli stadi e preferisce l’offerta televisiva. C’è chi se la prende con quei piccoli club – Carpi, Frosinone, Sassuolo, Crotone – che non richiamano folle sugli spalti (come si diceva una volta), dimenticando che la provincia è stata sempre un elemento vitalizzante per il nostro campionato maggiore. E chi invece mostra come ci sia fame di calcio lontano dai grandi palcoscenici, citando gli esempi di Parma e Lecce, sprofondati in Lega Pro, che riempiono gli stadi. Comunque sia, il baraccone del calcio è vivo e lo spettatore è morto.

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