Pier Mario Fasanotti
Dopo l'elezione di Trump

L’incubo americano

Un celebre giornalista francese, Michel Floquet, ha condotto una grande inchiesta sui vizi capitali degli americani. Razzismo, classismo, diseguaglianza, povertà eccessiva. Insomma, l'american dream si è rovesciato: nasce da qui la vittoria di Trump?

Ma che America si troverà a governare, Donald Trump? Avrà il coraggio di affermare che la nazione più potente del mondo è ancora “la terra delle opportunità”? E, soprattutto, quale America ha eletto Donald Trump? Chi ha seguito in tv e sui i giornali i raduni elettorali e le elezioni per la Casa Bianca avrà certamente pensato che erano scenari alla X-Factor o L’isola dei famosi: slogan e cartelloni (moltissimi con la parola “strong”, o meglio “stronger”), risolini isterici, urla da stadio, ragazze da attrazione fatale, palloncini colorati e, potremmo aggiungere noi spocchiosi europei, ricchi premi e cotillons. Un’America luccicante ma intimamente volgare, il paese dei I Donald, dove il logos viene spesso sostituito dalla gag.

Ce la descrive bene, con una lucidità feroce, uno tra i più noti reporter francesi, Michel Floquet, in Triste America (edito da Neri Pozza, 204 pag., 16,50 euro). Pare proprio che la «nuova frontiera (a parte il massacro degli indiani) mostri un Occidente sbrindellato, diverso dai sogni di chi vuole andare. Domina il dio denaro. Sulla prima pagina di USA Today, sono comparsi i ritratti di alcuni ricconi. Il meno fortunato intasca 70 milioni di dollari l’anno. Grande imbarazzo di fronte a tale Lee Moonves, numero uno della Cbs, che può contare su 280 milioni. Centosessantamila famiglie detengono da sole quasi un quarto della ricchezza nazionale. Il portafoglio è diventato una mentalità, un modo disinibito di presentarsi, di fare raffronti. Solo il 35 per cento dei super-manager vorrebbe – ripeto: vorrebbe – che ci fosse un maggior equilibrio tra profitto e impatto sociale. In altre parole, mettere “un po’ di morale nella finanza”». Che fa il potere politico? Michel Floquet sostiene nel suo libro che «ha semplicemente esonerato i ricchi dal pagamento delle tasse. I più benestanti pagano meno del 20 per cento. I loro dipendenti vedono i salari decurtati di una somma tra il 25 e il 30 per cento». I conti privati di Donald Trump la dicono lunga. È questo l’american dream?

usa-racism1Da alcuni anni sono esplose le spese universitarie: un aumento del 440 per cento. I campus costano ormai 10 mila dollari, alcuni sfiorano o superano i 50 mila. Tre studenti su quattro ricorrono ai prestiti, che nel 2015 hanno toccato il picco di 1160 miliardi. Il 42 per cento dei giovani nati nel 20 per cento nelle famiglie più povere continuano a restare tali anche in età adulta. Questa proporzione è solo del 20% in Danimarca e del 30 per cento in Gran Bretagna. Il tasso di abbandono scolastico sfiora il 50 per cento. Nelle scuole è pericolosamente diffuso il razzismo e il disprezzo verso la donna. Una studentessa su cinque è vittima di un’aggressione sessuale. Ci si chiede: ma le regole sono rispettate? Un esempio illuminante è quello fornito dalla storia di Thomas Lopez, bagnino ventunenne in Florida. In un giorno di luglio vede un nuotatore in difficoltà a qualche decina di metri dal suo punto di osservazione. Non esita, accorre e lo salva, con l’aiuto di due suoi colleghi. Ma ha compiuto un errore, secondo la ditta che garantisce la sicurezza balneare: ha abbandonato la propria postazione. È stato licenziato. Il sindaco della cittadina lo definisce eroe. Lopez potrebbe essere riassunto, dopo tanto clamore, ma lui rifiuta. La ditta di sorveglianza non ha mai modificato il proprio regolamento.

Gli americani, ci informa Floquet, sono dediti al feroce sfruttamento di tutto, per esempio i monti Appalachi, qua e là spianati. Già Alexis de Toqueville (1805-1859) ritraeva così l’homo americanus: «Egli è freddo, tenace, spietato calcolatore. Si attacca alla terra e strappa alla vita selvaggia tutto ciò che può. Lotta incessantemente contro di lei, la priva ogni giorno di qualche attributo». René de Chateaubriand si chiedeva: «Insomma, gli americani sono uomini perfetti? Non saranno dominati dallo spirito mercantile? L’interesse non comincia a diventare in loro il difetto nazionale dominante?».

Passiamo dalle opinioni ai dati. Un americano consuma cinque volte più energia di un brasiliano e 11 volte più di un indiano. Ma anche due volte più di un francese. Il totem è l’automobile. L’abitazione ideale per la famiglia media è una casa con tre garage in una lottizzazione in mezzo al nulla, a diverse decine di chilometri dalla città o cittadina. Sono i cosiddetti exurbs, in contrapposizione ai suburbs (periferie vicinissime ai centri urbani). Chi si appresta ad atterrare in una grande città ha l’impressione di sorvolare un paesaggio idilliaco. Si scende di quota e si nota che quella foresta attorno a Minneapolis piuttosto che Atlanta o Denver, è un territorio costellato, butterato di puntini. È una sorta di foresta tarlata da gruppi di case. È l’urbanizzazione anarchica. A 50/60 miglia dalle città. Ecco gli exurbs, fuori dal tessuto urbano. Chi vive qui vive ogni giorno fa tre ore in auto. Attorno il niente. Ghetti, anche se di lusso. Con separazioni rigide: i vecchi con i vecchi, i “professionals” con i “professionals”, i bianchi con i bianchi. Nessuna promiscuità sociale. Il modo di vivere viene stampato sul reddito ( e sui pregiudizi). Del resto, la mappa razziale è ben visibile anche a Washington, città tagliata in due, etnia nera a est, etnia bianca a ovest. Nessuna zona grigia. Martin Luther King decenni fa parlò di “segregazione residenziale”.

usa-racism3A nostro parere la fotografia social-politica dell’autore del libro che segnaliamo ha un evidente limite. Disegna bene i perimetri, ma non si pone dubbi su quanto c’è dentro. E se, all’interno di un paese indubbiamente molto dinamico, ci fossero milioni di famiglie soddisfatte del loro modus vivendi? Che cosa accade e di che cosa si parla dentro quelle villette col giardino ossessivamente ben curato? Floquet, a questo proposito, riferisce un dato curioso: il “real american” (il vero americano) telefona spesso al 911 (forze dell’ordine) quando nota che il vicino di casa non taglia per bene l’erba del giardino. L’uso del numero magico della sicurezza, il 911 appunto, è sconsideratamente diffuso.

Altro punto dolente dell’America sono i “working poors”, i poveri che lavorano ma che non riescono a tirare a fine mese. Margareth ha 69 anni e vive in un Suv con il figlio handicappato. Lavora dodici ore al giorno, fa le pulizie per tremila dollari al mese. Come milioni di americani è oberata di debiti. Come fanno a sopravvivere le persone come lei? Ricorrono ad altri debiti. Margaret deve 48 mila dollari a varie banche. E le banche americane non si muovono come quelle europee: si può anche non pagare un centesimo al mese. Ma i tassi d’interesse sono stellari, fino al 22,99 per cento, il massimo consentito dalla legge. Margareth, così come tanti altri sfortunati, è destinata al fallimento totale.

Los Angeles è la capitale dei senza-tetto. Il loro numero, dal 2013 al 2015 è cresciuto del 12 per cento, anche a causa del costo crescente delle abitazioni. La metà dei salariati di Los Angeles potrà contare, da oggi al ’19, di nove dollari di compenso orario. In America coloro che vivono al di sotto della soglia di povertà sono quasi 50 milioni. Sono in aumento i “food stamps”, i buoni mensa. Uno su due è destinato ai bambini. Questi “buoni” nel 2015 sono costati 74 miliardi. Erano solo 38 nel 2008. C’è stata, è vero, una ripresa economica ma, a conti fatti, essa ha impoverito i poveri ed ha arricchito i ricchi. Molti debiti sono venduti all’asta e ci guadagnano (molto) i cosiddetti predatori. Gli Usa sono anche il paese degli avvocati. Le spese legali sono esorbitanti, visto che un legale di spicco si fa pagare anche 450 dollari l’ora. È la giustizia regolata dal denaro, annota Floquet.

usa-racism2Non è solo il terrorismo a fare stragi. È anche la giungla della cattiva alimentazione: in un anno ne sono morte tremila persone, in maggioranza poveri e neri. Non esiste la sicurezza alimentare, tanto è vero che 48 milioni di persone si ammalano ogni anno a causa di cibo avariato. Il cibo-spazzatura si trova ovunque. In alcuni supermercati molti prodotti portano l’etichetta “real food”. Vale anche per il formaggio (“real cheese”) e per la pizza. Ma l’incubo forte è il pollo. Nel 1950 occorrevano 70 giorni per allevarli, oggi solo 48. C’è dentro di tutto, da antibiotici a scarti di mais. Il 90 per cento delle insalate proviene dalla California, ottava economia del mondo. Per raggiungere la costa orientale ci impiegano fino a sei giorni di trasporto. Possiamo immaginare in che stato arrivano.

Infine – si fa per dire – le armi. Circolano più di 300 milioni di esemplari, e aumenta la moda di esibirli in modo appariscente. Alla cow-boy, insomma. Undicimila morti ogni anno, circa 90 mila feriti. Dal 1968 a oggi è stato ucciso con armi da fuoco più di un milione di persone. Una guerra, anche con mitragliatrici “pesanti”. Barak Obama si è speso molto per frenare questo inquietante fenomeno. Ma non ci è riuscito. Il direttore del Gun Week Magazine è contrario a ogni restrizione, sostenendo che sarebbe «un insopportabile attentato all’idea di libertà».

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