Anna Camaiti Hostert
Lettera da Chicago

Le mie mille Americhe

Dopo l'elezione di Trump, molti commentatori hanno finito per mettere in luce singole caratteristiche del pianeta America: ognuna rispondente al vero, ma nessuna in grado di contenere la complessità di un mondo che è un crogiolo di contraddizioni

Un film storico dei fratelli Taviani, La notte di S. Lorenzo, raccontava la storia di un gruppo di cittadini di un paesino toscano che sceglieva di sfidare l’ordine fascista e nazista di rinchiudersi in una chiesa (poi fatta saltare a tradimento) e tentava di raggiungere il paese più vicino per incontrare gli americani. E gli americani sempre attesi e mai trovati diventavano un miraggio il cui apice viene rappresentato da Paolo Hendel che, dopo avere sentito le due bambine del gruppo che dicono di averli visti poco lontano, ma di cui apparentemente non c’è alcuna traccia, comincia a chiamarli, bisbigliando per non farsi sentire dai fascisti ancora presenti in zona: «Americani, americani, ameericani ameericaani!». Li cerca come un baluardo di salvezza. E così a noi apparivano come fossero un tutt’uno, o meglio come se il loro unico motivo di esistenza fosse l’intento di salvarci. In una parola erano i liberatori. Non si facevano distinzioni. E forse allora andava bene così. Anche se già in Paisà di Rossellini si vedono le crepe di quella presunta unità, come il nero che, nell’episodio di Napoli, parlando allo scugnizzo che non lo capisce, confessa che per lui tornare a casa non è poi cosi bello. Perché là c’è la segregazione. Ma a noi all’epoca piaceva vedere quel popolo di liberatori come un tutt’uno. I liberatori erano tutti giovani, belli e bianchi.

Ma gli americani, raggruppati entro quest’aggettivo sostantivato, non solo non sono un tutt’uno, ma non lo sono stati mai stati. E questo è il loro maggiore pregio e il loro maggior difetto. Perché sfuggono alle generalizzazioni. E oggi lo sono meno che mai. Oggi che già tra i bambini al di sotto dei cinque anni ci sono più appartenenti alle minoranze etniche che bianchi.

trump-obamaMi fanno sorridere i tanti stereotipi che adesso dopo l’elezione di Trump rifioriscono. Specie in Italia. È la pancia dell’America che ha votato, sono i maschi bianchi meno colti e più arrabbiati, sono i razzisti del Ku Klux Klan, sono i misogini e gli omofobi, sono gli operai e i minatori depressi che sperano che Trump gli riporti un lavoro che non esiste più, sono quelli che hanno paura che vengano loro tolte le armi, sono le donne che lo ammirano perché è macho. E poi ancora: gli americani sono ignoranti, superficiali, pericolosi, guerrafondai, violenti per natura. E forse sono anche tutto questo. Ma non solo. Certo è che non sono ideologici. E ciò riguarda ovviamente anche quelli che hanno votato Trump. Trump è stato votato da molti che non hanno voluto dichiarare il proprio voto.

Una cosa mi ha colpito durante queste elezioni: sempre in ogni campagna elettorale ci sono fuori delle case, in generale nei giardini antistanti, cartelli che illustrano gli intenti di voto dei loro proprietari. Questa volta no. C’erano pochi cartelli e quei pochi erano tutti in favore di Hillary Clinton e Tim Kaine. Non ce n’era nessuno per Donald Trump e Mike Pence. Devo dire che la cosa mi ha preoccupato molto fin dall’inizio. Non mi piaceva perché mi ha fatto pensare che molti si vergognavano di dirlo pubblicamente. Forse perché le cose che Trump diceva in televisione erano cosi scandalosamente esagerate, così assolutamente contro la political correctness e contro tutte le conquiste degli ultimi trent’anni, a cominciare dai diritti civili, nessuno aveva il coraggio di dichiarare che lo avrebbe votato. C’era da domandarsi se, come oggi va molto di moda dire, la sua “narrativa” e la sua retorica cosi flamboyant non fossero una trovata pubblicitaria. Più tipica dei reality show che del linguaggio politico. Eppure è piaciuto. E certa gente che voleva andare contro Hillary o voleva comunque cambiare, perché certe riforme non erano state realizzate come aveva sperato o non erano state realizzate affatto , ha trovato in Trump un campione dell’iperbole a cui aggrapparsi per far sentire la propria voce.

Particolarmente interessanti al proposito mi sono sembrati i commenti a queste elezioni dei giornalisti e degli intellettuali italiani.

trumpsupporters2Pierluigi Battista ha scritto che principalmente queste elezioni hanno segnato «la fine del politically correct», Qualcun altro come Cacciari ha detto che c’è stata una «secessione della plebe». Federico Rampini infine ha scritto che questo è il prodotto del «tradimento delle élite». Che è dovuto al fatto che in America e con essa in tutto l’Occidente, le élite, di cui Rampini con un vezzo paternalistico e un po’ snob non manca di ricordarci di far parte (come se non lo sapessimo già), non hanno saputo difendere i valori di questo mondo. Cioè quel «mix di valori che regolano una società capace di assorbire flussi d’immigrazione crescenti» il cui pericolo maggiore sta nel non poter prevedere il risultato finale. Cosa assai deleteria perché potrebbe portare all’autodistruzione.

Per la verità queste mi sembrano tutte considerazioni autoreferenziali di un élite che si parla addosso e non capisce che i problemi della gente sono altri continuando così a scoprire il fianco nei confronti di una possibile sconfitta. E soprattutto a ignorare che l’America non è New York, né Washington, né Los Angeles che in una pericolosa sineddoche vengono a rappresentare agli occhi degli italiani l’intero paese, grazie al fatto che lì vivono i corrispondenti esteri che non hanno l’America nei loro guts. Gli stati americani sono tanti, diversamente popolati e fatti di persone oltremodo diverse e variegate. Ormai lo ripeto da tanto: gli americani non sono affatto un tutt’uno, ma un crogiuolo di contraddizioni che non permettono alcuna sussunzione di carattere unitario. È il paese postmoderno par excellence dove la categoria della totalità non può essere rappresentata come un’unica veste. Vedo pertanto queste posizioni, ognuna delle quali peraltro coglie qualcosa di vero, come troppo unilaterali e soprattutto viziate da un’impostazione ideologica di ritorno che in America non esiste o che, se c’è mai stata, è stata del tutto involontaria e niente affatto pensata. Gli americani medesimi, se chiedi loro come spiegano se stessi e cosa sono, ti dicono che non lo sanno esattamente. Perché rispondere a questa domanda, proprio come nel caso del sistema elettorale, è molto complicato. Se non impossibile.

Certo lo scossone c’è stato ed è stato forte. Non è stata un’elezione come le altre del passato. Questo è vero. La sorpresa, proprio come per la Brexit, è stata grande, specie per chi sperava che la continuità tra Obama e Clinton servisse a portare a compimento molte delle riforme iniziate dal primo. Riforme alcune delle quali, e la riforma sanitaria è quella più importante, erano stata fatte solo a metà anche a causa di un Congresso ostile e bloccato in un gridlock irritante e irresponsabile. Ebbene quel poco che con grande fatica è stato ottenuto sarà spazzato via. La delusione è cocente, lo ammetto.

trump-supporters1Nicola Fano nel suo articolo su Succedeoggi (clicca qui per leggerlo) scrive che queste elezioni chiudono un ciclo aperto dal thatcherismo e dal reaganismo più di trent’anni fa con l’instaurazione di un capitalismo rampante e immorale che ha permesso l’aumento sfrenato dei benefici dei pochi a svantaggio di quelli dei molti, allargando la forbice delle differenze di classe e impoverendo la classe media. Inoltre, mi viene da aggiungere sono il risultato di un backlash che viene dopo l’elezione del primo nero alla Casa Bianca e della paura dei bianchi – che presto saranno minoranza – di perdere il controllo del potere. Ma anche di certe minoranze etniche che non hanno visto avverarsi quei cambiamenti radicali che avevano sperato da Obama. Dimenticando che il presidente ha avuto una vita difficile nei suoi due mandati, dovendo lottare ogni giorno contro l’ostruzionismo repubblicano e dovendo far passare leggi che non erano come le avrebbe volute. C’è infine un dato che bisogna considerare: gli americani, in questo caso tutti, non hanno pazienza di aspettare il corso lungo di certe riforme strutturali e dunque si buttano nelle braccia di chi, come in questo caso, promette loro la luna a breve scadenza. E certo stando a ciò non potevano seguire la prima donna presidente. Il che spiega la mancanza di esternazioni sul voto.

La mia non è una Weltanschauung di ritorno però che si guarda l’ombelico per compiacersi di non essere parte di ciò che è avvenuto. Anzi se ne addolora e si lecca invece le ferite perché di quel paese fa parte, cercando modi possibili di risollevare la testa. Con dolore ma anche con fierezza. Infatti, la democrazia americana – che non conosce il fascino perverso dell’ideologia – è stata costruita attraverso una rivoluzione basata sui principi democratici dell’uguaglianza e della giustizia sanciti nella sua Costituzione e su quel pursuit of happiness della sua Dichiarazione di Indipendenza. Ma è stata edificata anche sullo schiavismo e sulle differenze di classe. Quindi nasce, vive e prospera sulle contraddizioni. Quelle stesse contraddizioni che, come ci ricordava Marx, possono dare luogo a volte a periodi di evoluzione/involuzione e a volte a periodi di rivoluzioni. Questo secondo me è l’unico dato comune di queste elezioni che stanno portando il paese verso un periodo di involuzione. Nel quale paradossalmente si potranno aprire anche spiragli di luce per la costruzione di un grande cambiamento, alternativo a quello che presto diventerà il nuovo establishment che certo non farà sconti a nessuno. E che cercherà di non fare prigionieri. A questo bisognerà resistere cercando di combattere con i mezzi che quella grande democrazia ci mette a disposizione. Senza tentennamenti. Questi sono gli unici pezzi di ideologia che l’America conosce e che hanno un valore. Perché si riferiscono alla sua storia e al suo DNA.

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