Alberto Fraccacreta
L'elzeviro secco

Il venerdì di Petrarca

Il critico spagnolo Francisco Rico, in un saggio su Petrarca (Adelphi) analizza il suo rapporto con “il giorno propizio e funesto al contempo”. Un modo per incrociare la poesia con la vita

Sembra che Francesco Petrarca, il poeta più imitato della letteratura europea, abbia trascorso in vita un numero consistente di “venerdì neri”, tanto che questo giorno è assurto, alla luce del suo immaginario creativo, a dies fastus atque nefastus, giorno propizio e funesto al contempo. È la tesi del critico spagnolo Francisco Rico nel saggio I venerdì del Petrarca (Adelphi, pp. 219, euro 14), corredato di un Profilo biografico scritto in collaborazione con Luca Marcozzi. «Il venerdì è, nell’opera di Petrarca, innanzitutto il giorno dell’apparizione e della morte dell’amata, e quindi pietra di confronto per rivisitare tutto il mito di Laura; ma nella sua vita non scritta il venerdì è anche il giorno deputato a determinati comportamenti di particolare rilevanza o portata simbolica». Le più significative esperienze nell’esistenza del poeta aretino – come la presunta ascesa al Mont Ventoux, allegoria di un innalzamento spirituale prima che fisico – accadono (o si vuole che accadano) di venerdì.

Esiste una ragione: il pensiero dell’inappartenenza di Laura e del contenuto di mondanità (il lauro poetico, il «breve sogno») ad essa correlato, coincide con una ricorrenza (dell’anima?) ambivalente e, a tratti, orfica. Tale pensiero, cominciato sotto le redini preumanistiche di Petrarca, erede-riformatore della poetica stilnovistica, e proseguito da Leo­par­di, trova ulteriore compimento nel Montale di Satura. «Dicono che la mia/ sia una poesia d’inappartenenza./ Ma s’era tua era di qualcuno:/ di te che non sei più forma, ma essenza». È l’ultima lirica della sezione Xenia; l’insinuazione dei critici è confermata nell’incipit stesso di Satura: «I critici ripetono,/ da me depistati,/ che il mio tu è un istituto./ Senza questa mia colpa avrebbero saputo/ che i tanti sono uno anche se appaiono/ moltiplicati dagli specchi». La «poesia d’inappartenenza» è l’i­dea­le chiuso e svuotato di senso, il mezzo che non porta ad un’alterità femminile veramente connotata, ma si richiama a quello stato dello spirito che elegge la donna ad articolazione anonima di un ideale annunciatore delle «grandi utopie», per dirla con Mario Luzi. Questo aspetto è, senza dubbio, deleterio ad una visione corretta del ruolo della donna nella società odierna.

francesco-petrarca«Disponiamo di ancor meno elementi per appurare che cosa si nasconda dietro al mito di Laura. Personalmente – ma non sono il solo – ho sempre sospettato che l’amata del Canzoniere, zitella a vita o consunta crebris partubus, fonda figure di donne diverse, figure diverse di una stessa donna e, certamente, raffigurazioni diverse della laurea poetica». È forse la dichiarazione più traumatica della colta indagine di Rico, che avvicina ancor di più il “pensiero poetante” – secondo un’espressione di Antonio Prete – dei maggiori esponenti della nostra tradizione lirica, effettuando così un “salto” diacronico notevole e, tuttavia, gravido di identiche perturbazioni. Se la letteratura può considerarsi tensione escatologica ad un tu “proiettivo”, e la poesia transitività, confine attraversabile in direzione del vero, Laura, la natura leopardiana e Clizia (la musa estrema di Montale) sono figure sostanziali di un passaggio non riuscito: rispecchiano la negatività del dire poetico, l’insufficienza del tentativo di divinizzarsi senza l’opera del trascendente. Il tu montaliano è multiforme, incerto; così come quello dei suoi predecessori. Una simile variabilità certifica l’impossibilità del transito, la difficoltà dell’approdo al gentil sesso.

Il filologo catalano riconosce, infatti, che «dietro la semplice menzione di un giorno della settimana – persino del giorno in cui nacque – c’è sempre un disegno d’insieme che va oltre la materialità del dato». Il venerdì stesso è forma umbratile, lato cupo ed enigmatico della donna. La traccia, per così dire, “neoplatonica”, incorporea del femminino cela tutta la carenza, persino l’oscurità, di una elevazione puramente astratta. Isidoro di Siviglia suggerisce, al contrario, l’idea di femminilità come terra. O meglio, la terra del cielo: una presenza viva, reale e insieme salvifica. E chissà che, proprio di venerdì, Petrarca abbia compreso che, in fin dei conti, Laura non era la donna giusta per lui.

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