Valentina Fortichiari
Editoria oggi, le ragioni di una mutazione

Il fattore umano

Quello che si stabilisce tra l’editore e i suoi scrittori è l’elemento cruciale, l’ingrediente più potente nell’edificazione della grande letteratura. Un patrimonio che stiamo perdendo, sacrificando anche in questo campo al dio denaro

Quando nel 1929 Max Perkins, editor della casa editrice Charles Scribner’s Son, accettò di mandare in stampa il primo libro di Thomas Wolfe, Look Homeward, Angel, probabilmente aveva intuito che si sarebbe coltivato un genio (si veda il recente film di Michael Grandage, Genius, con Colin Firth e Jude Law, nella foto di apertura). Il loro sodalizio, terminato con la morte prematura di Wolfe a soli 38 anni, si basò sin dall’inizio su un solido rapporto interpersonale: Perkins, nato con la testa nell’Ottocento (1884) ma con i piedi ben piantati nel Novecento (morì nel ’47), era un uomo sobrio, dedito al lavoro in modo ossessivo («la letteratura è una questione di vita o di morte», «non c’è niente di più importante di un libro»), ma molto legato alla famiglia. Padre di cinque figlie, in Tom Wolfe riversò forse anche l’amore paterno per il maschio mancato: per quanto fosse solito diventare amico stretto di tutti gli autori che prendeva in cura (Hemingway, Fitzgerald), in modo particolare assistette Tom in tutti i modi e i campi. Ne fu psicanalista, consigliere nelle questioni amorose, prestasoldi, e Wolfe fu l’impresa più impegnativa della sua vita. Fedele al principio che un buon editor può tirare fuori da un autore solo quello che l’autore ha già in sé, aveva un orecchio speciale per la scrittura, specie di uno scrittore che caricava nel suono della parola, della voce, tutto il potere incantatorio dei suoi romanzi.

cesare-zavattiniQuesto genere di rapporto prima di tutto umano, oltre che professionale, annovera tanti esempi: Siegfried Unseld, di Suhrkamp, che ha raccontato le vicende editoriali di Hesse, Brecht, Rilke, Walser, dei quali è stato «balia letteraria, analista, uomo di affari e mecenate»; Diana Athill (1917), indefessa amica e editor per mezzo secolo di autori del calibro di Philip Roth, John Updike, Mordecai Richler, V.S. Naipaul, Margareth Atwood, Norman Mailer; Gordon Lish, celeberrimo editor di Raymond Carver; Klaus Wagenbach, fondatore dell’omonima casa editrice. Tutti convengono sul fatto imprescindibile che gli autori siano prima di tutto persone, che il patto che si stabilisce tra autore e editore si radichi nell’affetto. Da noi, in Italia, basterebbe fare i nomi di Vittorio Sereni, Nicolò Gallo, Mario Spagnol, Roberto Cerati. Persino l’appartato, schivo, Roberto Bazlen, anima segreta di Adelphi dalla fondazione, provava per gli scrittori un interesse umano, in tutti cercava quasi un prolungamento della conversazione. Cesare Zavattini (nella foto) formò col suo Editore Valentino Bompiani una coppia inossidabile, insieme diedero vita a idee e iniziative in campo culturale di primaria importanza, nell’epoca in cui tutto in editoria era ancora da inventare. Guido Morselli, lo sfortunato scrittore varesino, inedito outsider per vocazione, scrivendo a Calvino gli prospettava incontri conviviali davanti a un caminetto dove ardere rami di rosseggianti pini di Scozia, ricchi di materie resinose dall’aroma profumato.

Il fattore umano: non c’è componente altrettanto significativa e potente, tanto più nella storia del microcosmo editoriale. L’incontro di anime, di amicizia e di fiducia reciproca che si stabilisce fra un editore e i suoi scrittori è elemento cruciale. Dacia Maraini ancora rimpiange i tempi in cui «il mondo letterario e artistico, nel quale si muoveva, era molto più unito e solidale» rispetto all’oggi. «Ci si vedeva senz’altra finalità che la gioia di stare assieme». Le comunità letterarie erano luoghi di scambi vivacissimi, di dibattiti animati; l’editoria, una industria in anni d’oro fondata sul dialogo e sulla partecipazione, sulla presenza di figure autorevoli, di intellettuali impegnati. Lo ha raccontato con sapienza lo studioso Giuseppe Lupo nel suo recente saggio, La letteratura al tempo di Adriano Olivetti (Edizioni di Comunità). Natalia Ginzburg, Paolo Volponi, Ottiero Ottieri, Franco Fortini, Carlo Bo furono protagonisti di una stagione ricca di figure colte, capaci di partecipazione, opinionisti in grado di prender posizione e di far sentire la propria voce, di polemica o di incitamento, comunque sempre animati da genuina passione civile, coscienza morale.
«Dove siamo tutti?», non stupisce che a porsi la domanda sia un giovane di trentatré anni, Paolo Di Paolo, lamentando la palude di Un tempo senza scelte (Einaudi). È davvero tutto finito, oggi? Finito il tratto eroico, persino temerario di chi ha il coraggio di resistere, o meglio di fare delle scelte, di scendere in campo responsabilmente. Quanta energia è necessaria? Quanto slancio, quanta passione, quanta imprudenza servono ancora, oggi? Oppure soltanto indignazione e rivolta? Siamo davvero riusciti, nel giro di un trentennio, a spegnere allori e speranze di chi – ai giorni nostri – trova davanti a sé un panorama editoriale desolante?

«Ci sono cose che scompaiono senza farsi notare», ha detto Roberto Calasso (L’impronta dell’editore, Adelphi). Che cosa rischia di scomparire, che cosa stiamo perdendo quasi impercettibilmente? L’educazione all’attenzione, l’eccellenza di pochi editori autentici, la differenza sostanziale tra vari marchi di un gruppo, tristemente omologati, e i cosiddetti ‘libri unici’. Infine la cura meticolosa, paziente, sensibile, sulla scrittura, sulla pasta della scrittura che va abilmente manipolata, un lavoro artigianale degnissimo, che dovrebbe sempre restare in ombra. Nel passaggio da casa editrice ovvero famiglia ad azienda industriale, si è lasciato per strada il fattore umano, l’intelligenza umana di chi sapeva tenere saldamente in mano il timone dell’impresa, scegliendo i migliori collaboratori e non aggregando occasionalmente manager incompetenti. Sarà colpa dell’ansia di far quadrare i conti, di valorizzare imprese di marketing a sostegno di una industria di bestseller che non può permettersi di perdere un colpo sul mercato? Sarà colpa della tecnologia? Sarà stata la televisione a banalizzare tutto? Le classifiche finte, i premi letterari, i festival, qualunque passerella obbligata per poter esibirsi in pubblico? Eppure la scrittura è notoriamente un lavoro solitario, fatto di silenzio, per pesare le parole, ogni singola parola, e con esse prendersi cura del mondo in ascolto. E dove sono finiti quei formidabili rabdomanti della scrittura, che armati di matite sapientemente leggevano ad alta voce, ascoltavano il suono, la risonanza delle parole, toglievano qua e là, cambiavano, spostavano, per far risaltare infine le gemme autentiche di un’opera del pensiero?

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